[445] VERSO UN NUOVO INIZIO
Tra ferite aperte e ricostruzione civile
Dopo il frastuono assordante della guerra, Montebello si ritrovò immerso in un silenzio denso, quasi irreale. Le campane tornarono a suonare, le strade a riempirsi di voci, ma nulla era davvero come prima. Era un paese provato, stanco, ma non spezzato. La gente ricominciava lentamente a vivere, pur con lo spettro della fame e delle macerie a fare ancora da sfondo ai giorni. Le case, spesso malconce, ospitavano famiglie numerose in pochi metri quadrati. Gli uomini tornavano a casa con le mani in tasca, incapaci di trovare un lavoro. Le donne, invece, facevano miracoli con poco: una minestra, un pezzo di pane, un braciere spento, e intorno la speranza che, forse, qualcosa sarebbe cambiato.
La guerra aveva fatto terra bruciata delle sicurezze, ma aveva anche tolto il velo all’eterna questione sociale. Non era solo la povertà a emergere, ma l’ingiustizia, il senso di abbandono, la consapevolezza che alcuni problemi, come la disoccupazione o la mancanza di case, esistevano da prima del conflitto e ora si presentavano più duri che mai. Molti reduci ritornavano dai campi di concentramento tedeschi scheletrici, muti, incapaci di reinserirsi in una società che non sapeva come accoglierli. Non bastava avere il diritto di parola o di voto: servivano lavoro, dignità, una casa dove crescere i figli senza freddo e senza vergogna.
Fu in questo scenario che la comunità si strinse attorno alle sue figure più solidali. Monsignor Cola, il prevosto del paese, fu uno dei primi a capire che non si poteva aspettare l’intervento dello Stato. Con l’aiuto dell’amministrazione comunale, organizzò la refezione scolastica e la distribuzione gratuita di minestre calde per bambini e anziani presso il vecchio asilo di via Castello. Ogni giorno, a mezzogiorno, oltre cento scodelle fumanti venivano servite a piccoli scolari e a nonni soli, stanchi e dimenticati. Era un gesto semplice ma potentissimo. I bambini portavano a casa il ricordo del sapore caldo di una minestra, e con essa la sensazione che, dopotutto, qualcuno si prendeva cura di loro.
Don Giuseppe Stella, giovane cappellano pieno di energia e compassione, dava il meglio di sé nei mesi estivi. Organizzava viaggi verso il suo paese natale, Velo d’Astico, per ospitare i bambini più poveri di Montebello. I mezzi erano pochi, i fienili umidi, ma lassù tra i boschi e l’erba alta, quei ragazzini scoprivano un altro mondo: quello dell’aria pulita, del gioco libero, di un pasto sicuro. Don Giuseppe raccoglieva offerte, barattava generi alimentari, chiedeva ospitalità, e riusciva, con mezzi quasi miracolosi, a far sorridere centinaia di bambini che avevano conosciuto troppo presto il volto duro della miseria.
Intanto, le famiglie cercavano di tirare avanti. In molte case non esisteva un bagno, il riscaldamento era un lusso, e le finestre venivano tappate con vecchie coperte per trattenere un minimo di calore. Il lavoro mancava, e anche l’industria locale, pur potenzialmente promettente, era quasi del tutto paralizzata. La Pellizzari, storica azienda montebellana, ogni tanto assumeva qualche giovane, ma si trattava di casi isolati, speranze che si accendevano e si spegnevano in fretta. Il Comune faceva il possibile: cercava di bloccare gli sfratti, requisiva appartamenti vuoti per destinarli a famiglie in emergenza. Ma la realtà era che molti montebellani erano costretti a guardare oltre: prima ad Arzignano, poi a Vicenza, infine all’estero. L’emigrazione, dolorosa e temuta, diventava per molti l’unica via d’uscita. Eppure, in mezzo a tanto disagio, qualcosa si muoveva. Nella primavera del 1946 si tennero le prime elezioni amministrative libere dopo oltre vent’anni. Montebello, come il resto del Paese, si preparava a scrivere una nuova pagina. La campagna elettorale era fatta più di parole sussurrate e strette di mano che di comizi e bandiere. Ma l’attesa era sentita. I montebellani si presentarono alle urne con compostezza e partecipazione. Alla fine, fu la Democrazia Cristiana a prevalere, e Silvestro Lovato, artigiano di grande reputazione, divenne il nuovo sindaco.* Figura schietta, onesta, competente, Lovato incarnava quella voglia di normalità e concretezza che la gente cercava. Era uno di loro, e parlava il loro linguaggio.
Con l’arrivo della nuova amministrazione, si cominciarono a gettare le basi per una vera ricostruzione. Non solo simbolica, ma urbanistica e sociale. Grazie al Piano Tupini – una misura nazionale per la ricostruzione edilizia – e con l’intervento dell’Ente Autonomo Case Popolari, si realizzarono nuovi alloggi in via Borgolecco e via Muzzi. Erano case semplici, a riscatto o in affitto, ma rappresentavano un punto di partenza, una casa vera per tante famiglie fino ad allora dimenticate. Contemporaneamente, furono avviati lavori pubblici importanti: si aprì la strada IV Novembre, che collegava due assi fondamentali del paese, e si tracciarono le nuove vie Otto Aprile e Giuseppe Cederle, che ampliarono la viabilità urbana.
Un’altra conquista, attesa da tempo, fu l’arrivo dell’elettricità in contrade fino ad allora rimaste al buio. Contrà Fara e Agugliana, piccole frazioni spesso trascurate, videro finalmente l’arrivo della luce. Un filo elettrico teso tra i pali, una lampadina accesa sopra il tavolo della cucina: per chi ci viveva, era una rivoluzione silenziosa, ma profonda.
Non meno significativo fu il recupero dell’autonomia per Zermeghedo. Questa piccola comunità, che fino al 1928 era stata un Comune autonomo, era stata inglobata a Montebello dal regime fascista, che aveva imposto accorpamenti forzati per ridurre le autonomie locali. Con la fine della dittatura e la rinascita democratica, Zermeghedo chiese e ottenne di tornare Comune libero. La gioia dei suoi abitanti fu autentica, profonda, come il riscatto di una dignità mai dimenticata.
Gli anni successivi furono ancora difficili, ma segnati da una crescente vitalità. Si organizzavano serate danzanti nelle case, si tornava a cantare, a raccontare storie. La miseria non era scomparsa, ma qualcosa era cambiato: la gente si sentiva di nuovo parte di una comunità. La speranza, pur fragile, aveva ripreso posto nei pensieri quotidiani. Montebello stava cambiando, e con lui i suoi abitanti.
Quella fase di passaggio, a metà tra emergenza e rinascita, fu il momento in cui si forgiò l’identità della Montebello del dopoguerra. Non fu una rinascita spettacolare, ma fatta di gesti concreti, di case ricostruite, strade aperte, luci accese, bambini sfamati. Fu la vittoria della tenacia silenziosa di una comunità che, uscita da un incubo, trovò la forza di rimettersi in cammino.
FOTO: 1) Costruzione di Via IV Novembre nel 1952 (Archivio Tino Crosara).
NOTA: * In realtà fu Bruno Munaretto il primo sindaco di Montebello nel periodo che va dalla fine della guerra alle prime elezioni dopo la caduta del fascismo. Bruno Munaretto fu, in seguito, per molti anni Segretario politico della locale sezione della Democrazia Cristiana.
BIBLIOGRAFIA: – V.Nori, “Montebello Vicentino”, Vicenza, 1988.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.
Umberto Ravagnani
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Grazie Umberto, ho letto tutto d’un fiato, la nostra vera storia.