LA VIA MAGGIORE

LA VIA MAGGIORE

[443] LA VIA MAGGIORE
Vocazione commerciale di passaggio e attrazione

 

All’inizio del Novecento, Montebello era ancora un paese in cui la terra dettava legge. L’agricoltura non era solo il cuore pulsante dell’economia, ma il respiro stesso della vita quotidiana. Dall’alba al tramonto, uomini, donne e ragazzi condividevano la fatica nei campi, dove ogni raccolto poteva segnare l’anno: grano, uva, foraggio, patate. Si viveva seguendo il ritmo delle stagioni, con una saggezza contadina tramandata più con i gesti che con le parole.
Eppure, Montebello non era soltanto zolle e aratri. Accanto alla forza millenaria dell’agricoltura, si sviluppavano piccole attività artigianali e commerciali. Calzolai, sarti, fabbri e falegnami rappresentavano un mondo fatto di perizia manuale, di botteghe in cui si respirava l’odore del cuoio e del ferro battuto. Piccole imprese, certo, ma vitali. Di vera industria, a quel tempo, si contavano solo rare eccezioni: una filanda, una fabbrica del ghiaccio. Il paese era ancora legato a un’economia preindustriale, ma non immobile.
La vocazione commerciale di Montebello trovava alimento nella sua posizione strategica. La via Maggiore, allora tratto della Strada Statale 11, lo attraversava come una spina dorsale. Vi transitavano carri, cavalli, pellegrini e venditori. Ed era proprio lungo questa arteria che si concentravano negozi, botteghe, osterie. Le vetrine affacciate sulla strada fungevano da calamita per chi viaggiava: bastava un’occhiata per farsi tentare da un cappotto, un mazzo di chiavi, una bottiglia di vino novello.
I forestieri, spesso costretti a fermarsi per la notte, trovavano ristoro nelle trattorie del centro o negli alberghi come la “Stella d’oro”. Il commercio si alimentava così non solo dei bisogni locali, ma anche del passaggio, del viavai che trasformava il paese in una piccola piazza di scambi continui, silenziosamente animata.
Il vero cuore commerciale del paese, però, batteva forte ogni mercoledì, giorno del mercato settimanale. Un appuntamento antico, regolato da un decreto veneziano del 1660*, che sopravviveva da secoli come rito sociale e collettivo. Il mercato di Montebello non era una semplice esposizione di merce: era un evento, un luogo di relazioni, una fiera della vita.
Tra la via Maggiore, piazza Italia e via Borgolecco, si affollavano banchi, mercanti e clienti. Si vendeva di tutto: alimenti, vestiti, utensili, animali da cortile e da tiro. Ma si concludevano anche trattative importanti: acquisti di terreni, compravendite di case, permute di bestiame. In questi casi, entrava in scena una figura carismatica e insostituibile: il “sensaro”.
Vestito con foulard al collo e in mano la sua inconfondibile “bagolina” – un bastoncino giallo – il sensaro sapeva unire le parti, leggere le intenzioni dietro gli sguardi, avvicinare venditore e compratore e portarli al punto cruciale: il colpo di mano destro che suggellava l’affare. Poi, tutti insieme in trattoria a brindare. Che l’accordo fosse fatto verbalmente, e non su carta, non importava: la parola valeva più di un contratto.
Il mercato del mercoledì non era solo commercio. Era anche il momento per sistemare ciò che si era rotto o da programmare. Chi veniva in paese coglieva l’occasione per far riparare la sveglia o la macchina da cucire dall’orologiaio, per commissionare al fabbro una grata in ferro battuto, per fissare con il maniscalco la ferratura dei cavalli.
Montebello brulicava di attività. Nei vicoli del centro, nelle corti interne, si sentivano i colpi ritmici dei martelli, il sibilo delle seghe, le voci che uscivano dalle botteghe. Era un’economia fatta di mani, di mestiere, di relazioni dirette tra artigiani e clienti. Anche il commercio ambulante contribuiva a questa vitalità: alcuni venditori avevano postazioni fisse nel centro storico, altri si muovevano su carrettini, offrendo la loro merce in ogni angolo del paese, anche nei giorni festivi.
Nonostante tutto, l’economia montebellana non era solida. I primi anni del secolo mostravano un paese nella media: né ricco, né misero. Ma chi restava fuori dai circuiti del lavoro – soprattutto nei periodi di crisi agricola – viveva male. Per molti giovani l’unica via di fuga era l’emigrazione.
La valigia di cartone diventava simbolo di speranza. Si partiva per la Svizzera, la Francia, le Americhe. Chi andava via lasciava famiglia, amici, terra, portandosi dietro solo qualche indumento e un’indomita voglia di riscatto. Le partenze erano sempre silenziose, quasi vergognose, ma cariche di speranza. Chi restava, troppo vecchio o malato per affrontare il viaggio, spesso cadeva nella povertà più dura.
La carità diventava allora una necessità. I questuanti giravano casa per casa, con il loro sacchetto di stoffa, chiedendo un pugno di farina, qualche centesimo, un tozzo di pane o un paio di scarpe smesse. “Andare a carità” non era solo mendicare: era sopravvivere.
In quei momenti di difficoltà estrema, la solidarietà prendeva forma concreta nella Congregazione della Carità San Vincenzo De Paoli. Era un’istituzione discreta ma fondamentale. Non distribuiva solo pane o vestiti: cercava un lavoro, un alloggio, offriva ascolto e conforto. Era la mano tesa che non umiliava, ma sollevava. Era una forma di carità che rispettava la dignità di chi riceveva, cercando di reinserirlo nella comunità.
Lo Stato era assente, le politiche sociali ancora incerte. Era dunque nelle mani di queste iniziative volontaristiche che si reggeva l’aiuto ai più fragili. E se il sacchetto del questuante restava troppo leggero, la Congregazione cercava di colmare il vuoto, almeno per un giorno in più.
Montebello, nei primi quindici anni del Novecento, era un paese sospeso tra passato e futuro. Forte della sua tradizione agricola, cominciava a scoprire la forza dell’artigianato e del commercio. Ma era anche un paese segnato dalle disuguaglianze e da una crescente emigrazione. Un microcosmo in cui il mercato del mercoledì e la bagolina del sensaro convivevano con la valigia dell’emigrante e il sacchetto del questuante. Un paese vero, fatto di mani callose, voci forti, dignità silenziosa. Un paese che, pur tra mille difficoltà, continuava a resistere e a costruire il proprio domani.

FOTO: 1) Cartolina di Montebello Vicentino nei primi anni del Novecento (rielaborazione Umberto Ravagnani).
NOTA: * Il 22 settembre 1660, dopo lunghi negoziati e suppliche, Domenico II Contarini, Doge della Serenissima Repubblica di Venezia, concesse l’autorizzazione, tanto attesa, del mercato al mercoledì.
BIBLIOGRAFIA: – V.Nori, “Montebello Vicentino”, Vicenza, 1988.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.

Umberto Ravagnani

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