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NOTTE CHIARA A MONTEBELLO

[449] NOTTE CHIARA A MONTEBELLO
Festa dell’uva, fuochi e illusioni

 

Nel 1938, Montebello cambiò volto per un giorno. L’Amministrazione Comunale, con uno slancio che mescolava ambizione e spirito celebrativo, decise di trasferire la “Festa dell’Uva” dal cuore storico del paese al viale della stazione. Fu una mossa audace, ma perfettamente in sintonia con i tempi. Il regime incoraggiava iniziative popolari che fossero al contempo spettacolari e disciplinate, e quel lungo viale alberato, ampio e ben visibile, offriva lo spazio ideale per una celebrazione dal respiro più ampio. Per giorni e giorni, gli abitanti si erano dati da fare. Donne con grembiuli infarinati intrecciavano corone di pampini, ragazzi si arrampicavano sugli alberi per appendere lanterne colorate, gli artigiani lucidavano botti e ruote di carri con lo zelo di chi sa di partecipare a qualcosa che resterà. Di sera, le luci veneziane — piccole fiaccole dalle tinte calde, appese tra i rami come frutti di fuoco — trasformavano il viale in un corridoio magico. Non erano luci qualsiasi: richiamavano la tradizione di Venezia, la prima città a brillare di notte, quando ancora nessuno sapeva cosa fosse l’illuminazione pubblica. A Montebello, quelle luci facevano brillare gli occhi anche ai più vecchi.
Poi arrivò il grande giorno. La gente, vestita a festa, cominciò ad arrivare già dal mattino. Dai paesi vicini giunsero a piedi, in bicicletta, a bordo di camioncini scassati carichi di bambini e fiaschi di vino. C’era un senso di attesa nell’aria, come se tutto il paese trattenesse il fiato. Quando il primo carro fece la sua comparsa, fu un’esplosione di applausi.
La sfilata era un tripudio. Ogni carro era un piccolo mondo: chi metteva in scena una vendemmia, con uomini finti ubriachi e ragazze che pigiavano l’uva a piedi nudi; chi ricreava una cantina con botti e candelabri; chi portava un intero vigneto in miniatura. E poi frutta, fiori, paglia, nastri, cori, costumi. L’orgoglio contadino si mescolava all’estro teatrale. Era una gara silenziosa tra contrade, ma senza invidia, solo con la voglia di stupire.
Le bande musicali scandivano il ritmo della parata. I tamburi facevano vibrare i petti, le trombe lanciavano note allegre nell’aria. I bambini correvano tra le gambe degli adulti cercando di afferrare grappoli lanciati dai carri. Gli odori si sovrapponevano: quello dell’uva spaccata al sole, del mosto versato a terra, dei panini col salame, del fumo delle caldarroste.
Con il calare del sole, il viale si accendeva di una luce irreale. Le lanterne tremolavano come stelle basse, i volti si coloravano d’ambra. La festa si spostava nel piazzale della stazione, che sembrava uscito da un film in technicolor. La banda saliva sul palco, i primi accordi facevano ondeggiare le coppie. Si ballava sotto il cielo, mentre dai chioschi si spillava vino rosso come sangue giovane. Poi, il gran finale. I fuochi d’artificio squarciarono il buio. L’intero paese guardava in silenzio, il naso all’insù, gli occhi pieni. Ogni esplosione era un colpo al cuore, ogni scia luminosa un sogno che si disegnava nell’aria. Per un attimo, Montebello sembrava il centro del mondo.
La festa fece il giro dei giornali provinciali. “Una sagra riuscita, un trionfo di popolo e identità” scrisse uno. Ma chi c’era, sapeva che nessuna parola bastava davvero. E quando tutto finì, il viale rimase. Tornò silenzioso, con le lanterne ormai spente e le foglie che iniziavano a cadere. Ma per i bambini, iniziava un’altra festa: la raccolta dei marroni caduti dagli ippocastani. Li raccoglievano come piccoli trofei, li caricavano su carretti improvvisati, li portavano a casa per fare brace, per scaldare i letti, per giocare alla vendemmia anche loro. Era la coda dolce dell’estate, quando la festa lasciava spazio alla vita vera — ma più piena, più bella, come se anche quella, in fondo, avesse ballato.
Ma quella festa non era nata per caso. Nel 1930, il Ministero dell’Agricoltura del Regno d’Italia istituì ufficialmente la “Festa dell’Uva”. Doveva svolgersi ogni anno, l’ultima domenica di settembre, e coinvolgere l’intera penisola. Il suo obiettivo? Apparentemente semplice: promuovere il consumo di uva da tavola e di vino. Ma dietro le quinte, si muovevano fili ben più profondi.
L’agricoltura italiana, in quegli anni, affrontava un problema serio: la sovrapproduzione d’uva. I raccolti superavano la domanda, le cantine erano colme, i contadini in difficoltà. Per il regime fascista, che vedeva nella terra e nel lavoro rurale il cuore dell’identità nazionale, questa crisi era inaccettabile. Ecco allora l’idea: trasformare il problema in opportunità. Trasformare l’uva in simbolo. Trasformare una necessità economica in celebrazione popolare. La regia dell’evento fu affidata all’Opera Nazionale Dopolavoro (O.N.D.), l’organismo creato nel 1925 per organizzare il tempo libero degli italiani. Ma non si trattava solo di svago: il dopolavoro serviva a plasmare il cittadino modello. Ogni escursione, ogni ballo, ogni conferenza agricola o torneo sportivo serviva a cementare il consenso al regime. La Festa dell’Uva, allora, era più di una sagra. Era un rituale collettivo. Una dimostrazione di disciplina, forza produttiva e spirito nazionale. Si celebrava l’uva, certo, ma anche il lavoro, la terra, l’Italia che produce e obbedisce. In questo clima, anche l’intrattenimento diventava strumento ideologico. I “Carri di Tespi”, piccoli teatri viaggianti voluti dal Ministero della Cultura Popolare, portavano opere e drammi in ogni angolo del Paese. Il loro nome veniva da Tespi, poeta greco considerato l’inventore del teatro itinerante. Niente era lasciato al caso: anche l’arte doveva servire la causa. Eppure, nonostante tutto, la festa conservava qualcosa di vero. La gioia dei bambini, la fatica dei contadini, il profumo del mosto. Perché l’uva era anche quella: sudore, orgoglio, vino condiviso al tramonto. E per molti, quella festa non fu solo propaganda. Fu un momento di luce in un’Italia che stava per entrare in tempi ben più bui.

FOTO: Un carro allegorico alla festa dell’uva di Montebello nel 1938 (rielaborazione Umberto Ravagnani).
BIBLIOGRAFIA: – P.Orano – I Carri di Tespi dell’O.N.D., Edizioni Pinciana, 1937.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.

Umberto Ravagnani

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OBIETTIVO MONTEBELLO

[448] OBIETTIVO MONTEBELLO
Un bersaglio tra due fuochi

Ultimamente, a Montebello Vicentino, alcuni episodi di sfollamento hanno riportato alla luce una ferita mai del tutto rimarginata: il ritrovamento di bombe inesplose della Seconda Guerra Mondiale. Ordigni rimasti sepolti per ottant’anni riaffiorano oggi come spettri del passato, costringendo intere famiglie ad abbandonare temporaneamente le loro case.
Tutto ebbe inizio un martedì mattina, nel mezzo dell’estate del 1944. Il cielo azzurro d’agosto non mostrava nulla di strano e Montebello sembrava addormentato nella sua quiete. Nei giardinetti del ponte del “Marchese”, qualche anziano cercava riparo all’ombra degli ippocastani. Il sole batteva forte, l’aria vibrava, e tutto pareva scorrere come sempre. Poi, il silenzio fu spezzato da un suono lontano. Un ronzio. Non era quello familiare degli aerei tedeschi, bassi e cupi, ormai quasi scomparsi dal cielo. Questo era diverso: più alto, più deciso. Chi era abituato a quelle frequenze se ne accorse subito. Gli sguardi si alzarono al cielo limpido, e in pochi minuti apparvero due formazioni di aerei alleati: sei da una parte, dodici dall’altra.
Sorvolarono Montebello con traiettorie lente, quasi misurando il paese con lo sguardo. Poi sganciarono il loro carico: 48 bombe piombarono nei pressi del ponte sul Guà e su quello ferroviario ai Ronchi. L’obiettivo era colpire le infrastrutture, ma molte bombe mancarono il bersaglio, esplodendo nel letto del fiume o tra le case vicine. Quattro civili morirono, alcuni feriti non ce la fecero. I Ronchi contarono diverse abitazioni danneggiate. Il fumo e la sabbia si alzarono come un muro. Non era più una guerra lontana. Era arrivata a casa.
Fu chiaro a tutti: Montebello era diventato un obiettivo. Non era più solo un paese agricolo, ma un punto strategico per gli Alleati. I ponti, la ferrovia, la strada statale 11, tutto era motivo sufficiente per attirare il fuoco dal cielo. E infatti tornarono.
Passò poco più di un mese. Era domenica 15 ottobre, una di quelle giornate d’autunno limpide, con l’aria frizzante e il cielo ancora azzurro. Intorno alle undici, nella chiesa prepositurale si stava per iniziare la messa. Intanto, lungo la strada-diga rialzata che porta verso Vicenza, avanzava una colonna tedesca: cavalli, muli, carri, soldati a piedi. Quella strada era scoperta, sopraelevata di sei-sette metri rispetto alle campagne. Un punto perfetto per colpire. I cieli si aprirono di nuovo: diciotto aerei americani calarono all’improvviso. Non ci fu scampo. Non ci fu tempo per scappare, né rifugi in cui nascondersi. Le bombe e le raffiche caddero come grandine. In pochi minuti la colonna fu distrutta. Cavalli sventrati, corpi dilaniati, soldati feriti che urlavano tra i fumi e le macerie. Fu una carneficina. Cinque soldati morirono, sei furono trasportati in ospedale. Una casa privata fu parzialmente abbattuta, molte altre lesionate. I civili cominciarono a scappare già dal pomeriggio, portandosi dietro quello che potevano. Da quel momento, la paura divenne parte della vita quotidiana.
Non era una paura vaga. Era concreta. Si costruirono rifugi antiaerei, venne installata una sirena d’allarme. Ogni sera calava anche l’oscuramento: niente luci, né nei negozi né nelle case. Bastava uno spiraglio per attirare “Pippo”. Era, questo, il nome che tutti davano a un misterioso aereo alleato che sorvolava Montebello di notte. Solo, minaccioso, costante. Cercava luci, e se ne scorgeva una, lanciava bombe. Il suo ronzio diventò il rumore più temuto dalle famiglie. Bastava sentirlo per correre a rifugiarsi o spegnere tutto.
Col passare dei mesi, Montebello finì nel mirino sempre più spesso. Gli attacchi erano quasi quotidiani. Aerei mitragliatori, cacciabombardieri, ricognitori: il cielo era diventato il nemico. L’intensità dei bombardamenti raggiunse quella delle aree strategiche come lo scalo ferroviario di Santa Lucia di Verona. Chi viveva nei paesi vicini, da San Bonifacio a Caldiero, bastava che sentisse arrivare il rombo degli aerei per sapere: o toccava a Montebello, o a Santa Lucia. Le bombe erano certe. Solo il bersaglio variava.
E se non erano bombe, erano “bombette a farfalla”. Piccoli ordigni insidiosi, lanciati a grappoli, che scendevano lentamente a terra grazie a minuscole alette metalliche. Non esplodevano subito. Restavano sul terreno, mimetizzati tra l’erba, in attesa. Bastava sfiorarne uno con il piede o il manico di una zappa, e si attivava. Chi malauguratamente, veniva a contatto con una di queste, la faceva scoppiare e ne restava colpito.
Anche Montebello pagò il prezzo di queste trappole. Alcuni civili persero la vita, semplicemente passando per un campo, o tentando di rimettere in piedi una strada o un edificio.
In mezzo a tutto questo, qualcuno prendeva appunti. Monsignor Antonio Zanellato, prevosto del paese, tenne un diario. Non era poesia. Era un registro ossessivo, accurato, quasi clinico. Scriveva ogni giorno, con una calligrafia minuta e nervosa. Annotava ogni attacco: ora, tipo di aerei, numero di bombe, case colpite, nomi dei morti e dei feriti. Nei primi giorni scriveva senza numerare. Poi, quando gli attacchi divennero quotidiani, cominciò a contarli. Dal 31 agosto 1944 al 25 aprile 1945 registrò 50 bombardamenti e 34 mitragliamenti. E precisò, con amara lucidità, che gli ultimi giorni erano stati così frenetici da non riuscire più a tenerne il conto.
Nell’ultima pagina del diario, tra una riga e l’altra, quasi non ci fosse più spazio per aggiungere nulla, lasciò scritto: “Su una statistica pubblicata a Vicenza, è stato assegnato a Montebello il primato su tutti i Comuni della Provincia per incursioni subite.
Montebello aveva visto il peggio. Non solo il passaggio della guerra, ma la sua permanenza. I suoi cittadini avevano vissuto mesi interi sotto l’ansia di un rombo, di un lampo, di una notte senza luce. Eppure, in mezzo a tutto, c’erano le chiese, i campi, le famiglie. Gente che continuava a vivere, a sposarsi, a piangere, a ricostruire. Nonostante tutto. Montebello non fu solo un punto strategico da colpire. Fu un luogo abitato da uomini, donne e bambini che, giorno dopo giorno, impararono a convivere con la morte che arrivava dal cielo.

FOTO: 1) Bombardamenti degli Alleati a Montebello, nel 1944-45, sui due grandi ponti sul torrente Guà (NARA – National Archives and Records Administration).
BIBLIOGRAFIA: – G.Versolato, “Bombardamenti aerei degli alleati nel Vicentino”, Novale, 2007.
– Diario manoscritto di Mons. Antonio Zanellato prevosto di Montebello dal 1919 al 1952 (Archivio parrocchiale di Montebello).

Umberto Ravagnani

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L’INFERNO DEGLI ALPINI

[447] L’INFERNO DEGLI ALPINI
Una vita spezzata

 

Mario Clerici nacque il 29 aprile 1914, in un’Italia ancora inconsapevole della bufera mondiale che stava per travolgerla. Montebello, il suo paese, era allora un piccolo centro immerso nella quiete rurale, fatto di campi, strade polverose e cortili sempre pieni di vita. La guerra sarebbe scoppiata da lì a pochi mesi, ma quel giorno d’aprile portava con sé solo il pianto di un neonato e la speranza di una famiglia.
Secondo di undici fratelli, Mario crebbe in una casa dove l’amore non era mai un bene carente. I suoi genitori, Vittore, di Montebello, e Agnese Zanetti, di Zermeghedo, erano persone semplici ma profondamente radicate nei valori della fede, della solidarietà e della comunità. La famiglia era numerosa, sì, ma non disordinata. Ognuno aveva il proprio posto, il proprio compito. L’armonia si costruiva giorno per giorno, tra preghiere dette a mezza voce, mani sporche di terra, pasti condivisi e giochi improvvisati nel cortile.
Per Mario, crescere in mezzo a dieci fratelli* non fu mai un peso. Anzi, imparò presto il senso di responsabilità, la forza della cooperazione, ma anche il gusto per lo scherzo e la battuta. Era un ragazzo vivace, pieno di energia, sempre pronto a tendere una mano o ad accendere un sorriso. Chi l’ha conosciuto lo ricorda con affetto: un volto aperto, due occhi sempre accesi e un entusiasmo che sembrava inesauribile. Non era solo benvoluto; era uno di quei giovani che sembrano nati per farsi voler bene da tutti.
La casa in cui viveva raccontava, in silenzio, una storia più antica. Mobili in legno scuro, quadri dalle cornici importanti, oggetti d’arredo che parlavano di un passato forse più agiato di quello presente. I nonni paterni, si diceva, venivano dalla Lombardia, probabilmente dalla zona del Lago di Como. Ma nessuno sapeva con certezza il motivo per cui si fossero trasferiti a Montebello. Il padre, Vittore, era sempre sfuggente su quell’argomento, come se volesse tenere nascosto qualcosa o forse solo proteggere un pezzo di passato rimasto in ombra.
Mario crebbe respirando un clima fatto di dignità e concretezza. Il lavoro era parte integrante della vita familiare: si imparava presto ad aiutare, a contribuire, a non tirarsi indietro. Mario lavorava insieme al padre e al fratello Gino nel commercio ambulante. Era un’attività che dava soddisfazione, fondata su principi semplici: onestà, impegno, rispetto. “Il consumo fa il guadagno” diceva sempre il padre, e questa massima risuonava tra la merce che vendeva e le chiacchiere con i clienti. Mario e Gino, durante le pause, si divertivano a cantare i canti della Messa: il Kyrie, il Gloria. Lo facevano ad alta voce, come esercizio e come rituale. Anche la spiritualità, a casa Clerici, aveva il suo posto. Non ostentata, ma viva.
Mario assorbiva tutto: il senso del dovere, la profondità della fede, ma anche il valore delle relazioni. Crescendo, si fece notare per il suo carattere forte e al tempo stesso gentile. Era un giovane che ispirava fiducia. Per i suoi coetanei, divenne presto una figura di riferimento. Non imponeva, non comandava. Coinvolgeva. Era un leader naturale, carismatico senza saperlo. Parlava poco, ma con peso. Rideva molto, ma con intelligenza.
Mario, proprio come il padre, non era alto né particolarmente atletico, ma aveva forza da vendere. Era robusto, saldo come una quercia. Un pomeriggio d’inizio primavera, mentre lavorava nell’orto di famiglia, vicino all’argine del torrente Chiampo, si ritrovò coinvolto in un evento drammatico. Il torrente, gonfio per le piogge recenti, scorreva impetuoso. All’improvviso, urla disperate squarciarono il silenzio: un bambino era caduto in acqua. Mario non esitò. Abbandonò gli attrezzi, corse sull’argine, si tuffò tra le onde torbide. Dopo una lotta con la corrente, riuscì a tirare fuori quel corpo piccolo e inerme. Ma era troppo tardi. Il bambino, che abitava a pochi passi da lì, era già morto. Aveva battuto violentemente la testa contro uno dei grossi massi di granito che punteggiavano la base dell’argine. Si seppe in seguito che quel giorno era uscito con alcuni amici per cercare muschio, da mettere nel presepe. Una tragedia banale, quotidiana, figlia di un gesto innocente. Quel ragazzino, tra l’altro, era il figlio di un caro amico di Mario, che proprio pochi giorni prima gli aveva chiesto di fargli da padrino per la Cresima. Il dolore fu enorme, straziante. Quel giorno Mario non perse solo un bambino del paese, ma un simbolo della fragilità della vita.
Poi arrivò la guerra. La seconda, più crudele, più coinvolgente. L’Italia fascista, spinta dall’ambizione di Mussolini, entrò nel conflitto con l’illusione di riconquistare un ruolo di potenza. Mario, come molti altri, ricevette la chiamata alle armi. Era il 1941. Fu assegnato agli Alpini, nella Divisione Julia. Partì per il fronte greco-albanese, un territorio difficile, aspro, gelido. Un mondo lontanissimo da Montebello.
Nel frattempo, a casa, la guerra cominciava a farsi sentire. I telegrammi arrivavano uno alla volta, come coltelli nella carne della comunità. I primi giovani montebellani cominciavano a cadere. Ogni notizia era un dolore collettivo. Il paese, piccolo e coeso, viveva ogni lutto come proprio. Ma nessuna notizia colpì tanto quanto quella che riguardò Mario Clerici.
La comunicazione giunse all’improvviso: Mario era morto sul fronte greco-albanese. Era caduto durante quella che fu ricordata come l’Offensiva di Primavera, un attacco voluto da Mussolini nel marzo del 1941 per cercare di ribaltare le sorti di una guerra ormai segnata dal fallimento. L’offensiva, iniziata tra i monti albanesi, tra il fango, la neve e la fame, fu un disastro annunciato. Le truppe italiane, stremate e male armate, tentarono un assalto frontale contro i greci, ben trincerati e determinati. La battaglia si concentrò su Cima 731, una vetta insanguinata e mai conquistata, nonostante diciotto assalti.
La campagna si concluse il 16 marzo con un nulla di fatto. Undicimila italiani tra morti e feriti. Mario era uno di loro. Un giovane pieno di sogni, strappato alla vita in una guerra che non aveva scelto, per una causa che non gli apparteneva. La sua morte lasciò un vuoto enorme. A Montebello fu come se il tempo si fosse fermato. Tutti lo conoscevano. Tutti lo stimavano. Per molti ragazzi del paese, Mario era un modello. Un ragazzo con la luce negli occhi, con la voglia di fare, con la generosità nel cuore.
Quando si seppe della sua fine, si diffuse un pensiero amaro: se anche uno come Mario era morto, allora nessuno era al sicuro. Era come se la guerra avesse voluto colpire non solo un corpo, ma un simbolo. Un simbolo di giovinezza, di energia, di bontà.
E in effetti fu così. Perché da quel momento la lista dei caduti si allungò. Altri nomi, altri volti. Ma quello di Mario Clerici restò, nella memoria collettiva, come uno dei più luminosi. Non perché fosse migliore degli altri, ma perché rappresentava qualcosa di più: la promessa spezzata di un futuro possibile. Un ragazzo che avrebbe potuto fare tanto, costruire, amare, restare. Ma che invece fu inghiottito dall’assurdità della storia.
Mario non fu solo un soldato caduto. Fu un figlio, un fratello, un amico, un giovane che credeva nella vita. E che morì senza clamore, come tanti, ma con la dignità che solo chi ha vissuto con sincerità può portare fino in fondo.
Ancora oggi, a Montebello, qualcuno pronuncia il suo nome con rispetto. Non tanto per il fatto che fu un eroe di guerra — perché in quella guerra di eroi veri ce n’erano pochi — ma per ciò che rappresentava: la bellezza della giovinezza spesa bene, anche se troppo presto.

FOTO: Mario Clerici prima della partenza per l’Albania (rielaborazione Umberto Ravagnani).
NOTA: * Questi i nomi degli undici fratelli: Pietro, Mario, Gino, Maria, Angela, Gina, Teresa, Silvia, Giuseppina, Pierina (diventerà poi Suor Patrizia) e Patrizio.
BIBLIOGRAFIA: – E.Crosara, “La famejeta”, Montebello, 2022.
– A.Basciani, “L’impero dei Balcani. L’occupazione italiana dell’Albania (1939-1943)“, Roma, Viella, 2022.

Umberto Ravagnani

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I GIARDINETTI DEL PONTE

[446] I GIARDINETTI DEL PONTE
Storie e risate contro il regime

All’inizio degli anni Trenta del Novecento, l’Italia era saldamente sotto il controllo del regime fascista. Mussolini era al potere da quasi dieci anni e il suo governo sembrava forte e incontrastato. Le piazze erano piene di manifesti, i giornali scrivevano solo ciò che faceva comodo al potere, e ogni gesto pubblico era attentamente controllato. Ma nonostante la propaganda martellante, nelle case, nei bar, e lungo le strade di tanti paesi, le persone continuavano a pensare con la propria testa.
Montebello era uno di quei luoghi dove il fascismo non era mai riuscito del tutto a mettere radici nel cuore della gente. Certo, in pubblico si stava zitti, o si fingeva di approvare. Ma nei luoghi informali, tra amici o tra conoscenti, la critica emergeva, anche se in modo leggero, spesso ironico.
Il regime aveva grandi piani per l’Italia. Uno di questi era l’espansione coloniale in Africa. L’Italia già controllava alcuni territori, ma Mussolini voleva di più. Così, nel 1935, con il pretesto di un conflitto minore accaduto in un posto lontano chiamato Ual Ual *, nel dicembre del 1934, le truppe italiane partirono per conquistare l’Etiopia.
La notizia dell’invasione arrivò anche a Montebello. Alcuni giovani del paese decisero di unirsi alla spedizione. Non tutti per convinzione politica: in realtà, molti cercavano solo un lavoro. Partire per l’Africa, per loro, voleva dire avere uno stipendio e, forse, qualche possibilità in più in un’Italia che offriva ben poco a chi era senza mezzi.
La vita quotidiana a Montebello, infatti, non era facile. Molte famiglie vivevano di poco, spesso di niente. Il lavoro scarseggiava. Chi non aveva la fortuna di avere un impiego fisso faceva quello che capitava: un giorno nei campi, uno in una piccola fabbrica, poi magari tre giorni a casa senza nulla da fare.
La disoccupazione era talmente diffusa da aver creato una sorta di routine comune tra chi cercava lavoro. Al mattino, tanti si ritrovavano vicino alla Loggia comunale, sperando in una chiamata dall’ufficio di collocamento o da qualche contadino in cerca di aiuto per una giornata. Ma spesso l’attesa era inutile. Così, tornavano a casa per il pranzo – se c’era qualcosa da mettere in tavola – e poi uscivano di nuovo, per passare il pomeriggio in uno dei pochi luoghi pubblici accessibili a tutti: i giardinetti vicino al ponte Marchese.
Quel posto era poco più di un triangolo di terra, con qualche aiuola e quattro grandi alberi che offrivano un po’ d’ombra. Ma per tanti, era un piccolo rifugio. Si sedevano sul bordo delle aiuole, parlavano, si scambiavano notizie, ricordi e battute. Lì si respirava un’aria diversa. Non di festa, certo, ma neppure di disperazione.
C’erano persone che, nonostante tutto, conservavano una certa leggerezza. Anche chi era disoccupato da mesi non si lasciava andare al lamento continuo. Si mormorava, si criticava, ma senza perdere del tutto la voglia di scherzare. Il malumore si esprimeva con ironia. Le storie raccontate erano spesso comiche, anche quando nascevano dalla fatica e dalla povertà.
Si parlava di tutto. Di vecchi amori, ormai finiti, consumati lungo l’argine del Chiampo. Di episodi accaduti anni prima, in fabbrica o all’estero. Non mancavano i racconti di emigrazione: chi era stato in Francia o in Belgio tornava con aneddoti strani e curiosi. Altri ricordavano le disavventure con i gerarchi locali, quelli che si atteggiavano a padroni e che spesso si facevano detestare con i loro atteggiamenti arroganti.
Anche il fascismo era oggetto di battute. Ovviamente, si doveva fare attenzione. La polizia era sempre all’erta e bastava poco per essere denunciati. Qualcuno, a Montebello, aveva già fatto un giro nelle carceri di Lonigo solo per una parola di troppo. Per questo, si usavano soprannomi. Mussolini, ad esempio, veniva chiamato “boca mora”, un’espressione nata dal colore scuro con cui veniva stampata la sua immagine sui muri delle case. Era un modo per criticarlo senza nominarlo apertamente.
Quel linguaggio fatto di doppi sensi, sorrisi storti e barzellette era una forma di resistenza. Piccola, sì, ma non per questo meno importante. In un tempo in cui tutto sembrava bloccato, in cui si doveva applaudire anche quando non se ne aveva voglia, riuscire a ridere, a ironizzare, era un segno di libertà interiore.
E questa libertà viveva nei racconti che si intrecciavano sotto gli ippocastani, nel caldo pomeriggio di un’estate qualunque. Le storie nascevano una dopo l’altra. Una portava a un’altra, e un’altra ancora. Ognuno aveva qualcosa da dire, anche chi parlava poco. La memoria collettiva si costruiva lì, giorno dopo giorno, tra chi attendeva un lavoro e chi ormai aveva smesso di cercarlo.
La povertà era evidente, ma non faceva perdere del tutto la dignità. C’era chi arrivava da lontano, a piedi, e si fermava a riposare sotto l’ombra degli alberi. Chi si portava dietro un pezzo di pane secco. Chi raccontava la giornata senza esagerare, con un misto di amarezza e orgoglio. Era un mondo fatto di attese, ma anche di piccoli gesti condivisi.
In questo contesto, anche la speranza aveva una sua forma silenziosa. Nessuno faceva grandi discorsi. Ma tutti, in fondo, pensavano che quel periodo buio prima o poi sarebbe finito. Che il rumore delle marce e dei discorsi roboanti avrebbe lasciato spazio a qualcosa di più vero, più semplice.
Il fascismo, agli occhi di molti, sembrava sempre più una grande mascherata. Tutto troppo esagerato, troppo costruito. Le divise, i saluti, i discorsi alla radio, le promesse non mantenute. Dietro la facciata, c’era una realtà che la gente conosceva bene: quella della fatica quotidiana, delle bocche da sfamare, dei giovani costretti a partire per guerre che non comprendevano. E così, a Montebello, la gente non aveva bisogno di grandi discorsi per capirlo: bastava guardarsi intorno, ascoltare, ricordare. E sotto gli ippocastani, con una storia in bocca e un sorriso amaro sulle labbra, si continuava ad aspettare il giorno in cui tutto quel circo avrebbe avuto fine.

FOTO: 1) Dove c’erano i “Giardinetti del ponte del Marchese”, fu costruito un distributore della compagnia ‘Aquila’, 1960 circa. Oggi, al suo posto, vi è una grande rotatoria stradale (cortesia Michelangelo).
NOTA: * Nel 1934 nella località di Ual Ual, in Etiopia, vi si svolse uno scontro a fuoco tra truppe etiopi e truppe coloniali italiane che fu il fattore scatenante della Guerra d’Etiopia.
BIBLIOGRAFIA: – V.Nori, “Montebello Vicentino”, Vicenza, 1988.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.

Umberto Ravagnani

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VERSO UN NUOVO INIZIO

[445] VERSO UN NUOVO INIZIO
Tra ferite aperte e ricostruzione civile

 

Dopo il frastuono assordante della guerra, Montebello si ritrovò immerso in un silenzio denso, quasi irreale. Le campane tornarono a suonare, le strade a riempirsi di voci, ma nulla era davvero come prima. Era un paese provato, stanco, ma non spezzato. La gente ricominciava lentamente a vivere, pur con lo spettro della fame e delle macerie a fare ancora da sfondo ai giorni. Le case, spesso malconce, ospitavano famiglie numerose in pochi metri quadrati. Gli uomini tornavano a casa con le mani in tasca, incapaci di trovare un lavoro. Le donne, invece, facevano miracoli con poco: una minestra, un pezzo di pane, un braciere spento, e intorno la speranza che, forse, qualcosa sarebbe cambiato.
La guerra aveva fatto terra bruciata delle sicurezze, ma aveva anche tolto il velo all’eterna questione sociale. Non era solo la povertà a emergere, ma l’ingiustizia, il senso di abbandono, la consapevolezza che alcuni problemi, come la disoccupazione o la mancanza di case, esistevano da prima del conflitto e ora si presentavano più duri che mai. Molti reduci ritornavano dai campi di concentramento tedeschi scheletrici, muti, incapaci di reinserirsi in una società che non sapeva come accoglierli. Non bastava avere il diritto di parola o di voto: servivano lavoro, dignità, una casa dove crescere i figli senza freddo e senza vergogna.
Fu in questo scenario che la comunità si strinse attorno alle sue figure più solidali. Monsignor Cola, il prevosto del paese, fu uno dei primi a capire che non si poteva aspettare l’intervento dello Stato. Con l’aiuto dell’amministrazione comunale, organizzò la refezione scolastica e la distribuzione gratuita di minestre calde per bambini e anziani presso il vecchio asilo di via Castello. Ogni giorno, a mezzogiorno, oltre cento scodelle fumanti venivano servite a piccoli scolari e a nonni soli, stanchi e dimenticati. Era un gesto semplice ma potentissimo. I bambini portavano a casa il ricordo del sapore caldo di una minestra, e con essa la sensazione che, dopotutto, qualcuno si prendeva cura di loro.
Don Giuseppe Stella, giovane cappellano pieno di energia e compassione, dava il meglio di sé nei mesi estivi. Organizzava viaggi verso il suo paese natale, Velo d’Astico, per ospitare i bambini più poveri di Montebello. I mezzi erano pochi, i fienili umidi, ma lassù tra i boschi e l’erba alta, quei ragazzini scoprivano un altro mondo: quello dell’aria pulita, del gioco libero, di un pasto sicuro. Don Giuseppe raccoglieva offerte, barattava generi alimentari, chiedeva ospitalità, e riusciva, con mezzi quasi miracolosi, a far sorridere centinaia di bambini che avevano conosciuto troppo presto il volto duro della miseria.
Intanto, le famiglie cercavano di tirare avanti. In molte case non esisteva un bagno, il riscaldamento era un lusso, e le finestre venivano tappate con vecchie coperte per trattenere un minimo di calore. Il lavoro mancava, e anche l’industria locale, pur potenzialmente promettente, era quasi del tutto paralizzata. La Pellizzari, storica azienda montebellana, ogni tanto assumeva qualche giovane, ma si trattava di casi isolati, speranze che si accendevano e si spegnevano in fretta. Il Comune faceva il possibile: cercava di bloccare gli sfratti, requisiva appartamenti vuoti per destinarli a famiglie in emergenza. Ma la realtà era che molti montebellani erano costretti a guardare oltre: prima ad Arzignano, poi a Vicenza, infine all’estero. L’emigrazione, dolorosa e temuta, diventava per molti l’unica via d’uscita. Eppure, in mezzo a tanto disagio, qualcosa si muoveva. Nella primavera del 1946 si tennero le prime elezioni amministrative libere dopo oltre vent’anni. Montebello, come il resto del Paese, si preparava a scrivere una nuova pagina. La campagna elettorale era fatta più di parole sussurrate e strette di mano che di comizi e bandiere. Ma l’attesa era sentita. I montebellani si presentarono alle urne con compostezza e partecipazione. Alla fine, fu la Democrazia Cristiana a prevalere, e Silvestro Lovato, artigiano di grande reputazione, divenne il nuovo sindaco.* Figura schietta, onesta, competente, Lovato incarnava quella voglia di normalità e concretezza che la gente cercava. Era uno di loro, e parlava il loro linguaggio.
Con l’arrivo della nuova amministrazione, si cominciarono a gettare le basi per una vera ricostruzione. Non solo simbolica, ma urbanistica e sociale. Grazie al Piano Tupini – una misura nazionale per la ricostruzione edilizia – e con l’intervento dell’Ente Autonomo Case Popolari, si realizzarono nuovi alloggi in via Borgolecco e via Muzzi. Erano case semplici, a riscatto o in affitto, ma rappresentavano un punto di partenza, una casa vera per tante famiglie fino ad allora dimenticate. Contemporaneamente, furono avviati lavori pubblici importanti: si aprì la strada IV Novembre, che collegava due assi fondamentali del paese, e si tracciarono le nuove vie Otto Aprile e Giuseppe Cederle, che ampliarono la viabilità urbana.
Un’altra conquista, attesa da tempo, fu l’arrivo dell’elettricità in contrade fino ad allora rimaste al buio. Contrà Fara e Agugliana, piccole frazioni spesso trascurate, videro finalmente l’arrivo della luce. Un filo elettrico teso tra i pali, una lampadina accesa sopra il tavolo della cucina: per chi ci viveva, era una rivoluzione silenziosa, ma profonda.
Non meno significativo fu il recupero dell’autonomia per Zermeghedo. Questa piccola comunità, che fino al 1928 era stata un Comune autonomo, era stata inglobata a Montebello dal regime fascista, che aveva imposto accorpamenti forzati per ridurre le autonomie locali. Con la fine della dittatura e la rinascita democratica, Zermeghedo chiese e ottenne di tornare Comune libero. La gioia dei suoi abitanti fu autentica, profonda, come il riscatto di una dignità mai dimenticata.
Gli anni successivi furono ancora difficili, ma segnati da una crescente vitalità. Si organizzavano serate danzanti nelle case, si tornava a cantare, a raccontare storie. La miseria non era scomparsa, ma qualcosa era cambiato: la gente si sentiva di nuovo parte di una comunità. La speranza, pur fragile, aveva ripreso posto nei pensieri quotidiani. Montebello stava cambiando, e con lui i suoi abitanti.
Quella fase di passaggio, a metà tra emergenza e rinascita, fu il momento in cui si forgiò l’identità della Montebello del dopoguerra. Non fu una rinascita spettacolare, ma fatta di gesti concreti, di case ricostruite, strade aperte, luci accese, bambini sfamati. Fu la vittoria della tenacia silenziosa di una comunità che, uscita da un incubo, trovò la forza di rimettersi in cammino.

FOTO: 1) Costruzione di Via IV Novembre nel 1952 (Archivio Tino Crosara).
NOTA: * In realtà fu Bruno Munaretto il primo sindaco di Montebello nel periodo che va dalla fine della guerra alle prime elezioni dopo la caduta del fascismo. Bruno Munaretto fu, in seguito, per molti anni Segretario politico della locale sezione della Democrazia Cristiana.
BIBLIOGRAFIA: – V.Nori, “Montebello Vicentino”, Vicenza, 1988.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.

Umberto Ravagnani

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IL CALZOLAIO FILOSOFO

[444] TONI IL CALZOLAIO SENZA BOTTEGA
Un uomo, un banco da lavoro, e la politica nel sangue

 

In un tempo in cui l’Italia era attraversata da fermenti, marce e silenzi forzati, a Montebello, c’era un uomo che, senza mai alzare la voce, riusciva a farsi ascoltare. Si chiamava Toni Cela. Nessun cognome registrato, nessuna insegna sopra una porta a reclamare il suo mestiere. Solo “Toni“, il calzolaio. Ma definirlo così sarebbe riduttivo, quasi offensivo. Perché Toni Cela, più che un artigiano, era una mente pensante, uno spirito libero infilato nel corpo minuto di un uomo qualunque, che viaggiava con le mani impastate di colla e la testa immersa nei destini del mondo.
Toni Cela non aveva una bottega, né un posto fisso che si potesse chiamare casa. Era un artigiano ambulante, uno di quelli che si spostavano di famiglia in famiglia, di casa in casa, con il suo piccolo tavolino da lavoro, qualche strumento legato con lo spago, e l’aria riservata di chi ha più da dire che da mostrare. Restava in un luogo per due, tre giorni al massimo: il tempo necessario per rimettere in sesto tutte le scarpe rotte di quella famiglia. Scarpe da uomo, da donna, da bambino: Toni Cela non faceva distinzioni, e riusciva a ridare vita anche alle pelli più consumate. Lo compensavano in parte con qualche moneta, ma più spesso con un piatto caldo e un letto per la notte. Non si lamentava mai: sembrava vivere con poco, ma pensare in grande.
E già questo lo rendeva diverso. Ma c’era qualcosa in più. Toni Cela aveva un’intelligenza particolare, di quelle che non impari sui banchi di scuola, ma che ti sbocciano dentro come un senso innato delle cose. Aveva studiato appena qualche anno, giusto il minimo per leggere e scrivere, ma parlava come uno che aveva attraversato enciclopedie intere. Il suo vero campo d’azione, però, non era il suo lavoro. Era la politica.
Non che fosse un attivista: Toni Cela non manifestava, non distribuiva volantini, non prendeva parte a partiti o raduni. E, soprattutto, non era iscritto al Partito Fascista, un’assenza che, in quegli anni, poteva voler dire molto più di un semplice “no grazie”. Il fascismo, che invadeva l’Italia a colpi di propaganda, parate e saluti romani, a lui non diceva nulla. O meglio: diceva troppo, e Toni lo analizzava, lo smontava, lo confrontava con ciò che succedeva altrove, nel mondo. Parlava di Mussolini e di Hitler, ma anche di Roosevelt e Stalin, con una lucidità che stupiva chiunque avesse l’occasione di ascoltarlo.
Come facesse a restare così aggiornato, senza radio, giornali quotidiani né accesso regolare all’informazione, rimaneva un mistero. Ma Toni Cela era sempre informato, e su questioni complesse: non solo gli eventi principali, ma anche le dinamiche, le cause, le implicazioni. Sapeva che un colpo di Stato in Spagna avrebbe avuto ripercussioni sulla politica italiana, e capiva che certe decisioni economiche di Londra si sarebbero fatte sentire nei mercati agricoli del Sud. Non era magia. Era attenzione, ascolto, memoria.
Toni Cela ascoltava tutto, e tutti. Quando lavorava dietro al suo tavolino, piegato a martellare il cuoio, sembrava assorto nel gesto. Ma in realtà, mentre le mani danzavano su suole e cuciture, la testa lavorava a pieno regime. Se qualcuno parlava, lui assorbiva ogni parola. Se qualcuno chiedeva, rispondeva. E quando gli andava di dire la sua, lo faceva con una calma che lasciava tutti in silenzio.
Il suo tavolino, allora, si trasformava. Da semplice banco da lavoro diventava una vera e propria “tavola rotonda”, dove chiunque poteva sedersi attorno, ascoltare, discutere. Uomini del paese, donne curiose, ragazzi in cerca di storie: tutti si fermavano a guardare quel piccolo miracolo artigianale — una scarpa che tornava nuova — e finivano a parlare di cose ben più grandi. A Toni Cela spettava sempre la parola conclusiva. Non per autorità, ma per merito: perché sapeva dare un senso compiuto a tutto, anche ai pensieri degli altri.
Eppure, non c’era nulla di presuntuoso in lui. Era un uomo schivo, quasi timido, che non cercava il palcoscenico. Non alzava la voce, non imponeva le sue idee. Ma le sue parole avevano peso, perché erano il frutto di riflessioni meditate, argomentate, coerenti. Non si lasciava incantare dai proclami ufficiali, anzi. Sfidava le versioni di regime con la naturalezza di chi non ha paura di pensare con la propria testa. E questo lo rendeva, senza saperlo, un piccolo dissidente. Non urlava la sua opposizione, ma la praticava ogni giorno, con il semplice atto di pensare in libertà.
Toni Cela non aveva famiglia, né moglie né figli. Forse per scelta, forse per destino. Ma non era un uomo solo. Anzi, aveva sempre qualcuno intorno. Chi lo ospitava per qualche giorno finiva per affezionarsi. Si diceva che bastava un pasto condiviso e qualche parola scambiata per capire che quell’uomo, con le mani callose e gli occhi attenti, era una presenza preziosa. Non dava fastidio, non pretendeva nulla, ma lasciava qualcosa dietro di sé: un’idea, un dubbio, una riflessione che restava anche dopo la sua partenza.
Nonostante la sua vita errante, Toni Cela non era un emarginato. Era rispettato. Anche da chi la pensava diversamente. Perché non cercava lo scontro, ma il confronto. E anche se non aveva le armi della retorica, aveva quelle più affilate del buon senso e della logica. Parlava di politica come si parla di cose di casa: con concretezza, con attenzione al dettaglio, con la consapevolezza che ogni scelta pubblica ha ricadute private. Era questo che lo rendeva così ascoltato: parlava di Mussolini, sì, ma lo faceva parlando anche di lavoro, di fame, di figli da mandare a scuola, di scarpe da riparare.
Forse era proprio questo il cuore del suo pensiero: la convinzione che la politica non fosse roba da ministri e tribuni, ma una faccenda di tutti. Una rete di decisioni che toccano la vita quotidiana. E Toni Cela, che la vita la conosceva da vicino, sapeva bene di cosa parlava.
Non lasciò libri, né diari, né testimonianze scritte. La sua eredità era orale, sparsa nelle memorie di chi l’aveva ascoltato almeno una volta. Ma chi lo conobbe, anche solo per pochi giorni, non lo dimenticò. Lo ricordavano per come ti guardava mentre parlavi, per come sapeva ridare forma a una scarpa e senso a una conversazione. Lo ricordavano per la coerenza silenziosa, per la dignità semplice, per il coraggio di non piegarsi.
Toni Cela se ne andò come era vissuto: senza clamori, senza rumore. Ma con la coscienza pulita e le mani ancora segnate dal cuoio. Un calzolaio errante, sì, ma anche un pensatore lucido, un uomo libero, un piccolo faro acceso in un’Italia che spesso brancolava nel buio.

IMMAGINE: Grafica di fantasia che mostra un vecchio calzolaio al lavoro (elaborazione Umberto Ravagnani).
BIBLIOGRAFIA: – V.Nori, “Montebello Vicentino”, Vicenza, 1988.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.

Umberto Ravagnani

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LA VIA MAGGIORE

[443] LA VIA MAGGIORE
Vocazione commerciale di passaggio e attrazione

 

All’inizio del Novecento, Montebello era ancora un paese in cui la terra dettava legge. L’agricoltura non era solo il cuore pulsante dell’economia, ma il respiro stesso della vita quotidiana. Dall’alba al tramonto, uomini, donne e ragazzi condividevano la fatica nei campi, dove ogni raccolto poteva segnare l’anno: grano, uva, foraggio, patate. Si viveva seguendo il ritmo delle stagioni, con una saggezza contadina tramandata più con i gesti che con le parole.
Eppure, Montebello non era soltanto zolle e aratri. Accanto alla forza millenaria dell’agricoltura, si sviluppavano piccole attività artigianali e commerciali. Calzolai, sarti, fabbri e falegnami rappresentavano un mondo fatto di perizia manuale, di botteghe in cui si respirava l’odore del cuoio e del ferro battuto. Piccole imprese, certo, ma vitali. Di vera industria, a quel tempo, si contavano solo rare eccezioni: una filanda, una fabbrica del ghiaccio. Il paese era ancora legato a un’economia preindustriale, ma non immobile.
La vocazione commerciale di Montebello trovava alimento nella sua posizione strategica. La via Maggiore, allora tratto della Strada Statale 11, lo attraversava come una spina dorsale. Vi transitavano carri, cavalli, pellegrini e venditori. Ed era proprio lungo questa arteria che si concentravano negozi, botteghe, osterie. Le vetrine affacciate sulla strada fungevano da calamita per chi viaggiava: bastava un’occhiata per farsi tentare da un cappotto, un mazzo di chiavi, una bottiglia di vino novello.
I forestieri, spesso costretti a fermarsi per la notte, trovavano ristoro nelle trattorie del centro o negli alberghi come la “Stella d’oro”. Il commercio si alimentava così non solo dei bisogni locali, ma anche del passaggio, del viavai che trasformava il paese in una piccola piazza di scambi continui, silenziosamente animata.
Il vero cuore commerciale del paese, però, batteva forte ogni mercoledì, giorno del mercato settimanale. Un appuntamento antico, regolato da un decreto veneziano del 1660*, che sopravviveva da secoli come rito sociale e collettivo. Il mercato di Montebello non era una semplice esposizione di merce: era un evento, un luogo di relazioni, una fiera della vita.
Tra la via Maggiore, piazza Italia e via Borgolecco, si affollavano banchi, mercanti e clienti. Si vendeva di tutto: alimenti, vestiti, utensili, animali da cortile e da tiro. Ma si concludevano anche trattative importanti: acquisti di terreni, compravendite di case, permute di bestiame. In questi casi, entrava in scena una figura carismatica e insostituibile: il “sensaro”.
Vestito con foulard al collo e in mano la sua inconfondibile “bagolina” – un bastoncino giallo – il sensaro sapeva unire le parti, leggere le intenzioni dietro gli sguardi, avvicinare venditore e compratore e portarli al punto cruciale: il colpo di mano destro che suggellava l’affare. Poi, tutti insieme in trattoria a brindare. Che l’accordo fosse fatto verbalmente, e non su carta, non importava: la parola valeva più di un contratto.
Il mercato del mercoledì non era solo commercio. Era anche il momento per sistemare ciò che si era rotto o da programmare. Chi veniva in paese coglieva l’occasione per far riparare la sveglia o la macchina da cucire dall’orologiaio, per commissionare al fabbro una grata in ferro battuto, per fissare con il maniscalco la ferratura dei cavalli.
Montebello brulicava di attività. Nei vicoli del centro, nelle corti interne, si sentivano i colpi ritmici dei martelli, il sibilo delle seghe, le voci che uscivano dalle botteghe. Era un’economia fatta di mani, di mestiere, di relazioni dirette tra artigiani e clienti. Anche il commercio ambulante contribuiva a questa vitalità: alcuni venditori avevano postazioni fisse nel centro storico, altri si muovevano su carrettini, offrendo la loro merce in ogni angolo del paese, anche nei giorni festivi.
Nonostante tutto, l’economia montebellana non era solida. I primi anni del secolo mostravano un paese nella media: né ricco, né misero. Ma chi restava fuori dai circuiti del lavoro – soprattutto nei periodi di crisi agricola – viveva male. Per molti giovani l’unica via di fuga era l’emigrazione.
La valigia di cartone diventava simbolo di speranza. Si partiva per la Svizzera, la Francia, le Americhe. Chi andava via lasciava famiglia, amici, terra, portandosi dietro solo qualche indumento e un’indomita voglia di riscatto. Le partenze erano sempre silenziose, quasi vergognose, ma cariche di speranza. Chi restava, troppo vecchio o malato per affrontare il viaggio, spesso cadeva nella povertà più dura.
La carità diventava allora una necessità. I questuanti giravano casa per casa, con il loro sacchetto di stoffa, chiedendo un pugno di farina, qualche centesimo, un tozzo di pane o un paio di scarpe smesse. “Andare a carità” non era solo mendicare: era sopravvivere.
In quei momenti di difficoltà estrema, la solidarietà prendeva forma concreta nella Congregazione della Carità San Vincenzo De Paoli. Era un’istituzione discreta ma fondamentale. Non distribuiva solo pane o vestiti: cercava un lavoro, un alloggio, offriva ascolto e conforto. Era la mano tesa che non umiliava, ma sollevava. Era una forma di carità che rispettava la dignità di chi riceveva, cercando di reinserirlo nella comunità.
Lo Stato era assente, le politiche sociali ancora incerte. Era dunque nelle mani di queste iniziative volontaristiche che si reggeva l’aiuto ai più fragili. E se il sacchetto del questuante restava troppo leggero, la Congregazione cercava di colmare il vuoto, almeno per un giorno in più.
Montebello, nei primi quindici anni del Novecento, era un paese sospeso tra passato e futuro. Forte della sua tradizione agricola, cominciava a scoprire la forza dell’artigianato e del commercio. Ma era anche un paese segnato dalle disuguaglianze e da una crescente emigrazione. Un microcosmo in cui il mercato del mercoledì e la bagolina del sensaro convivevano con la valigia dell’emigrante e il sacchetto del questuante. Un paese vero, fatto di mani callose, voci forti, dignità silenziosa. Un paese che, pur tra mille difficoltà, continuava a resistere e a costruire il proprio domani.

FOTO: 1) Cartolina di Montebello Vicentino nei primi anni del Novecento (rielaborazione Umberto Ravagnani).
NOTA: * Il 22 settembre 1660, dopo lunghi negoziati e suppliche, Domenico II Contarini, Doge della Serenissima Repubblica di Venezia, concesse l’autorizzazione, tanto attesa, del mercato al mercoledì.
BIBLIOGRAFIA: – V.Nori, “Montebello Vicentino”, Vicenza, 1988.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.

Umberto Ravagnani

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AL FRONTE SENZA RITORNO

[442] AL FRONTE SENZA RITORNO – Schegge dal cielo

Quando GIUSEPPE ANTONIN, figlio di Michele e Dalla Grana Maria, classe 1889, si presentò alla visita di leva il 6 maggio del 1909, era un ragazzo di vent’anni nato e cresciuto in una terra di pianura, tra strade della campagna di Montebello e l’odore pungente delle stalle. Di professione faceva il maniscalco.  Aveva davanti a sé un futuro aperto, forse ancora indefinito, ma di certo non immaginava che la guerra lo avrebbe preso e trattenuto fino all’ultimo respiro. Quel giorno risultò soldato di prima categoria, idoneo e pronto a servire il Regno d’Italia. Non era un’eccezione. Come tanti suoi coetanei, Giuseppe entrava in quell’ingranaggio di marce, addestramenti e disciplina che allora scandiva il tempo dei giovani uomini. Il 10 novembre dello stesso anno fu arruolato nel 1° Reggimento “Nizza Cavalleria”, una delle unità storiche dell’esercito, rinomata per il portamento elegante dei suoi cavalieri e per la severità degli addestramenti.
Giuseppe si distinse come maniscalco, mestiere che richiedeva forza e pazienza, ma soprattutto un rapporto diretto con gli animali. I cavalli, per lui, non erano solo strumenti di guerra, ma esseri viventi di cui prendersi cura. Eppure, anche il mestiere più “umano” del reparto non era esente da rischi. Il 7 novembre 1910, mentre tosava un cavallo, fu colpito da un violento calcio al ginocchio sinistro. Una contusione seria, registrata nei verbali del reggimento, che lo tenne fermo per quasi due settimane. Nulla di grave, a conti fatti. Ma fu uno dei primi segni tangibili che la vita militare lasciava un’impronta anche nei momenti di relativa pace.
Il 25 ottobre 1911 fu congedato dal Reggimento Lancieri di Vicenza, con l’annotazione formale, ma importante, di “buona condotta”. In quel momento sembrava tutto finito: un ciclo si era chiuso. Si tornava alla vita civile, forse a un lavoro in campagna o in una bottega. Ma la Storia, quella con la S maiuscola, aveva altri piani.
Il 2 agosto 1914, l’Europa bruciava. Con il Regio Decreto firmato pochi giorni dopo, anche l’Italia si preparava alla guerra, e Giuseppe fu richiamato alle armi. Il 12 agosto entrava a far parte dell’8° Reggimento Artiglieria da Campagna, sezione trasporti,  il cosiddetto “Treno”. Erano i convogli logistici, i trasporti pesanti, il cuore silenzioso che teneva in vita le retrovie.
Alla fine di ottobre dello stesso anno, fu trasferito nuovamente a Vicenza, al Reggimento Lancieri, quasi come se un cerchio si stesse chiudendo. Ma era solo una tappa, uno dei tanti spostamenti che segnavano la vita dei soldati in quegli anni incerti.
La svolta decisiva arrivò il 22 aprile 1915: con la grande mobilitazione ordinata dal Re, l’Italia entrava ufficialmente nel conflitto. Verona diventò il suo punto di riferimento. Ogni giorno portava ordini, movimenti di truppe, richieste logistiche, notizie spesso contraddittorie. Ma la vera guerra, quella più sporca e letale, stava arrivando anche lì.
Il 2 giugno 1916, l’aria su Verona tremò. Gli aerei nemici — pochi e fragili, ma già carichi di morte — volavano sopra la città. Le bombe caddero a intermittenza, e una di quelle colpì Giuseppe. Non era in prima linea. Non era al fronte. Ma la guerra, lo si sa, non ha linee chiare. Una scheggia lo colpì con violenza. Le ferite erano gravi. Tre giorni dopo, il 5 giugno, Giuseppe moriva a Verona. Il suo nome comparve su un atto di morte datato 1° agosto, numero 733. Il Consiglio di Amministrazione del Reggimento registrò ufficialmente la sua morte il 20 giugno.
Il suo sacrificio fu riconosciuto. Il suo nome entrò nell’Albo d’Oro dei Caduti, tra migliaia di altri giovani che avevano lasciato il cuore e il corpo nei campi di battaglia, nei centri di comando, nelle città sotto attacco.
E mentre Giuseppe cadeva, un altro uomo combatteva. Suo fratello Giacomo, classe 1882, era anch’egli al fronte, nel 20° Reggimento Artiglieria da Campagna. Era poco distante, ma in un altro universo. Giacomo, a differenza di Giuseppe, tornò a casa. Sopravvisse alla guerra. Vide la fine dell’orrore e poté raccontarla. Due fratelli, due soldati, due destini diversi.
Giuseppe, invece, rimase a Verona, simbolo di una generazione interrotta. Non ci sono lettere sopravvissute, né fotografie note. Ma i documenti parlano abbastanza. Raccontano di un giovane uomo che ha servito con disciplina, che ha curato cavalli con le mani sporche di fatica, che è stato ferito in un giorno qualsiasi di pace, e poi ucciso in un giorno qualsiasi di guerra. In fondo, Giuseppe non aveva chiesto nulla di straordinario. Non era un eroe per vocazione. Ma il suo passaggio in questo mondo è rimasto inciso nelle carte ufficiali e nella memoria delle sue terre, come quello di tanti altri invisibili. E forse proprio per questo la sua storia merita di essere raccontata. Non per celebrare la guerra, ma per ricordare cosa essa chiede in cambio.
Un colpo di zoccolo, una scheggia, una firma su un decreto: questi i segni che hanno scandito il suo tempo. Niente medaglie, niente statue. Solo la certezza che Giuseppe c’è stato. E questo, a volte, è tutto ciò che conta.

FOTO: Giuseppe Antonin (rielaborazione grafica Umberto Ravagnani).
BIBLIOGRAFIA: O.GIANESATO, MONTEBELLO E I SUOI CADUTI NELLA GUERRA 1915-18, 2014.

Umberto Ravagnani

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UN PROGETTO CONDIVISO

[441] UN PROGETTO CONDIVISO
La Cappella del Divino Cuore Rifugio dei Sofferenti

 

Nella Casa di Riposo di Montebello Vicentino, si trova un luogo di culto poco appariscente ma ricco di significato: la Cappella dell’Ospedale, dedicata al “Divin Cuore Rifugio dei Sofferenti”. Dietro le sue pareti si cela una storia di generosità, dedizione e speranza, intrecciata con l’identità stessa della comunità che l’ha voluta e custodita nel tempo. La cappella venne costruita nel 1932, in un’epoca segnata da difficoltà economiche e forti limitazioni dovute al regime fascista e alla politica dell’autarchia, che imponeva l’uso esclusivo di risorse italiane. Eppure, anche in tempi così rigidi, il senso di solidarietà e di appartenenza della popolazione di Montebello riuscì a dare vita a quest’opera. La sua costruzione fu resa possibile dal lascito testamentario di Gio.Batta Zonato, dalle donazioni di molti cittadini e, in modo particolare, dall’impegno determinante del signor Cesare Fraccari.*
La cappella venne edificata sul lato ovest dell’area ospedaliera, su un terreno che un tempo era adibito a orto. La scelta della posizione non fu casuale: si voleva creare un luogo appartato ma facilmente accessibile, un angolo di spiritualità per chi si trovava a vivere momenti di fragilità fisica o emotiva. Il progetto fu affidato all’ingegner Augusto Tonelato, che disegnò un edificio semplice ma elegante, in perfetto equilibrio tra tradizione e modernità. Lo stile architettonico scelto rappresenta un interessante compromesso tra il classicismo — con le sue forme pulite e simmetriche — e il razionalismo, corrente in voga all’epoca che privilegiava funzionalità e rigore geometrico. Questo connubio rispecchia bene lo spirito del tempo e le limitazioni economiche del contesto, ma anche il desiderio di creare qualcosa di duraturo, essenziale e spiritualmente significativo. La cappella si presenta con una pianta a navata unica, che termina in un’abside semicircolare. Sulle pareti laterali si aprono due nicchie che ospitano elementi artistici di particolare valore. L’insieme, pur nella sua semplicità, trasmette equilibrio e serenità, rendendo lo spazio accogliente e raccolto.
Il 3 dicembre 1936, a quattro anni dalla posa della prima pietra, la cappella fu consacrata dal Vescovo di Vicenza, Monsignor Ferdinando Rodolfi. In quella cerimonia solenne e partecipata, l’edificio fu dedicato ufficialmente al “Divin Cuore Rifugio dei Sofferenti”. Un titolo carico di significato, pensato per sottolineare il ruolo della cappella come luogo di conforto spirituale per i malati, gli anziani e tutti coloro che attraversano momenti difficili. Negli anni successivi alla consacrazione, la cappella continuò ad arricchirsi di doni e interventi artistici. Tra i più significativi, spicca quello dello stesso Cesare Fraccari, che nel 1944 fece dono di un altare con relativo tabernacolo in marmo, modellato a forma di piccolo tempio. Questo altare, pur essendo oggi collocato in un contesto diverso da quello originario, resta uno degli elementi più suggestivi dell’edificio. Nello stesso anno, Fraccari commissionò alla pittrice milanese Amalia Panigatti la decorazione del catino absidale. Panigatti, conosciuta per il suo stile moderno e spiritualmente denso, realizzò un ciclo pittorico che riassume in immagini i valori su cui si fonda l’istituzione. L’iscrizione che corre lungo la base della pittura, tratta da un passo biblico, sintetizza il messaggio dell’opera: “Felice colui che si interessa al bisognoso ed al povero; il Signore lo premierà nel momento del bisogno”. L’opera è divisa in tre parti, unite da un filo narrativo coerente. Nella parte superiore, la Vergine Maria è rappresentata in abiti luminosi, tra due angeli in preghiera: una figura di mediazione tra l’umanità sofferente e l’Eterno Padre (oggi purtroppo non più visibile a causa del deterioramento del tempo). Al centro della composizione, una scena simbolica raffigura la donazione della cappella all’ospedale, con la famiglia del benefattore che la consegna nelle mani di una suora. Ai lati, altre scene illustrano le attività di assistenza, accoglienza e carità svolte storicamente all’interno dell’ospedale. Con il passare dei decenni, la cappella iniziò a mostrare i segni del tempo. Fu così che, nel 2000, grazie a un lascito della signora Maddalena Tadiello — già dipendente dell’ospedale e poi ospite della Casa di Riposo — si poté procedere a un radicale restauro. L’intervento fu anche un modo per onorare l’Anno Santo e il Giubileo, occasione di rinnovamento spirituale per l’intera comunità cattolica. Durante i lavori, fu commissionata alla pittrice Antonella Burato di Arcole la decorazione del soffitto. L’artista scelse di rappresentare il tema del rinnovamento spirituale attraverso un dipinto a tempera, collocato nel riquadro centrale del soffitto, che raffigura alcuni gruppi familiari nell’atto di protendersi verso Cristo, simbolo della salvezza dell’umanità. Questo intervento contribuì a rendere l’ambiente meno severo e più accogliente per chi vi entra in cerca di pace e riflessione. Anche le due nicchie laterali custodiscono elementi artistici di grande valore. In quella di sinistra si trova una statua del Sacro Cuore, realizzata con cura e attenzione ai dettagli, che raffigura Gesù in atteggiamento di accoglienza e compassione. Una presenza che richiama costantemente i fedeli al messaggio di amore universale. La nicchia di destra ospita invece un piccolo altare ligneo risalente ai secoli XVII-XVIII, probabilmente l’unico oggetto sacro trasferito con l’ospedale dalla vecchia Chiesa di San Giovanni Battista. Questo altare, finemente dorato e dipinto con simboli religiosi, è stato recentemente restaurato dal pittore Michelangelo Valbona. A lui si deve anche una tela che rappresenta la Madonna in trono con il Bambino Gesù, accompagnati dai santi Ignazio di Loyola e Luigi Gonzaga — un chiaro richiamo alla spiritualità gesuita e alla devozione popolare degli anni ‘30. La porticina del tabernacolo è decorata con sei piccoli angeli in adorazione, realizzati con smalti preziosi che ancora oggi catturano lo sguardo dei visitatori. Sempre in occasione del restauro del 2000, fu installata una nuova vetrata artistica sulla porta d’ingresso, realizzata dalla Ditta Poli di Verona. L’opera raffigura il battesimo di Cristo da parte di San Giovanni Battista e stabilisce così un legame simbolico con le origini dell’istituzione ospedaliera. Il tema scelto evoca l’idea di rinascita e purificazione, sottolineando la funzione della cappella come luogo di rinnovamento interiore.
Oggi, la Cappella dell’Ospedale non è solo un luogo di culto, ma anche un archivio vivente della memoria collettiva di Montebello. Ogni elemento — dai dipinti all’architettura, dalle statue alle vetrate — racconta una storia di solidarietà, fede e attenzione verso i più fragili. La sua esistenza è una testimonianza concreta della volontà di una comunità di prendersi cura non solo del corpo, ma anche dell’anima. Anche se molte delle opere presenti non sono firmate da artisti famosi, il loro valore simbolico e umano è altissimo. Esse rappresentano un patrimonio di spiritualità e dedizione che continua a ispirare le generazioni presenti e, si spera, anche quelle future. In un mondo che rischia spesso di dimenticare chi ha più bisogno, questi segni materiali del passato restano un invito silenzioso ma potente a non perdere il senso del bene condiviso.

FOTO: 1) Decorazione del catino absidale della pittrice milanese Amalia Panigatti.
2) L’altare ligneo recentemente restaurato dal pittore Michelangelo Valbona.
NOTA: * Il benemerito montebellano Cesare Fraccari fu generoso benefattore dell’Ospedale San Giovanni Battista (oggi Casa di Riposo), e per decenni ha tenuto alto, come animatore e promotore di competizioni sportive, il buon nome del nostro paese.
BIBLIOGRAFIA: S.Vantini – L.Dainese – E.Agnolin, Dalla Mansione del Tempio alla Casa di Riposo San G. Battista di Montebello, 2001.

Umberto Ravagnani

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LA CANEVA DEL MARCHESE

[440] LA CANEVA DEL MARCHESE
La metamorfosi di una ‘caneva’, di Montebello, seicentesca

In un disegno del 1691, dei periti Bortolomeo Munari e Angelo Zanovello, compare un edificio di grandi dimensioni, indicato con la denominazione di caneva del Marchese.1 L’identificazione, per quanto sintetica, rivela senza indugio la funzione primaria dell’immobile: si trattava di una cantina – ovvero di un edificio destinato alla conservazione e alla lavorazione del vino – di pertinenza della vicina villa dei Malaspina, situata oltre la strada principale. Questa indicazione, apparentemente marginale, si rivela invece di notevole interesse per comprendere la genesi e l’evoluzione architettonica del complesso oggi conosciuto come “The Towers”.
All’epoca, la struttura appariva profondamente diversa rispetto alla sua configurazione attuale. Pur mantenendo un impianto volumetrico imponente, tipico delle architetture rurali della nobiltà veneta, essa si distingueva per una notevole semplicità costruttiva. Mancavano, ad esempio, le due torri colombare che oggi costituiscono gli elementi più riconoscibili della facciata e che conferiscono all’intero complesso una certa eleganza compositiva. Allo stesso modo, le aperture originarie si limitavano a due soli varchi, distanziati l’uno dall’altro e disposti in maniera asimmetrica, a suggerire una suddivisione interna funzionale piuttosto che rappresentativa.
Tali caratteristiche rivelano l’originaria vocazione produttiva dell’edificio, concepito in funzione delle esigenze agricole e logistiche della tenuta. La caneva era infatti un elemento chiave nella gestione del ciclo vitivinicolo, che rivestiva un’importanza economica e sociale centrale nelle proprietà terriere delle famiglie aristocratiche venete tra XVII e XVIII secolo. La viticoltura, assieme alla cerealicoltura e all’allevamento, costituiva una delle principali fonti di reddito per le élite locali, le quali, pur risiedendo nei palazzi cittadini, esercitavano un controllo capillare sul territorio attraverso ville, barchesse, oratori e magazzini. Tuttavia, all’inizio del secolo successivo, in concomitanza con l’abbattimento delle barchesse dei Valmarana, poste nell’altro lato della strada, e la costruzione della loro nuova villa (1707), la ‘caneva’ subì una trasformazione profonda, tanto da modificarne radicalmente non solo l’aspetto esteriore, ma anche la funzione e il valore simbolico. La caneva perse la propria funzione prettamente vitivinicola e fu oggetto di un importante intervento architettonico, volto ad adeguarla al nuovo contesto residenziale e rappresentativo.
La trasformazione architettonica fu affidata, con ogni evidenza, a un capomastro di comprovata esperienza e sensibilità artistica. La sua mano si riconosce nella cura dei dettagli, nella scelta dei materiali e nella capacità di armonizzare l’edificio con il nuovo impianto complessivo della villa. Una delle soluzioni più raffinate adottate in questa fase fu l’impiego del contrasto cromatico tra la pietra bianca – probabilmente estratta dalle cave di pietra tenera vicentina, ampiamente utilizzata nell’architettura palladiana – e il basalto nero, abbondante a Montebello e nelle zone limitrofe. Il risultato visivo è di grande impatto: l’alternanza tra superfici chiare e scure conferisce profondità alla facciata, ne esalta i volumi e ne sottolinea le geometrie.
Un altro elemento architettonico di particolare rilievo è costituito dalla fascia bianca orizzontale che collega i tre archi del piano terra con le finestre del piano superiore. Tale fascia svolge una duplice funzione: da un lato, organizza la composizione della facciata secondo un ritmo ordinato e proporzionato; dall’altro, contribuisce a creare una continuità visiva tra i diversi elementi dell’edificio, favorendo una lettura unitaria e armonica dell’insieme2.
Le finestre stesse, caratterizzate da sagome elaborate, introducono un ulteriore livello di decorazione e testimoniano l’adozione di un linguaggio architettonico più sofisticato. Non si tratta più di semplici aperture funzionali, ma di veri e propri elementi compositivi, concepiti per conferire eleganza all’edificio e sottolinearne il nuovo status. La presenza delle bugne nelle torrette – ovvero le pietre sporgenti che decorano e rinforzano gli spigoli – rientra in questa stessa logica: esse evocano modelli urbani e palaziali, suggerendo solidità, ricchezza e prestigio.
La scelta di inserire due torri colombare alle estremità della facciata risponde anch’essa a un’esigenza tanto estetica quanto simbolica. Le torrette, pur mantenendo un richiamo alla funzione originaria – quella di ospitare i colombi, simbolo di abbondanza e risorsa alimentare – assumono ora un valore più scenografico. Elevano la silhouette dell’edificio, ne aumentano la verticalità e introducono un elemento di forte riconoscibilità visiva. Nella cultura architettonica veneta, tali torri rappresentano spesso una cifra stilistica distintiva, in grado di trasformare un semplice corpo di fabbrica in un edificio rappresentativo.
Questa trasformazione riflette in modo emblematico le dinamiche culturali e sociali che investirono la nobiltà veneta nel corso del XVIII secolo. In un periodo segnato da mutamenti economici e da una crescente attenzione al decoro e alla rappresentazione, molte famiglie aristocratiche investirono nel rinnovamento delle proprie dimore di campagna. La villa, da centro di gestione agricola, divenne sempre più spesso un rifugio estivo, un luogo di ricevimento e di affermazione sociale. In questo quadro, anche edifici secondari come le barchesse o le cantine venivano riconsiderati alla luce del nuovo linguaggio architettonico e adattati ai nuovi bisogni della committenza.
L’intervento sulla caneva del Marchese si inserisce quindi all’interno di un più ampio processo di ridefinizione degli spazi rurali, che interessò numerose proprietà nobiliari venete. L’architettura, in tal senso, si fece strumento di rappresentazione sociale, traducendo in pietra e calce i valori della famiglia proprietaria: ordine, eleganza, controllo del territorio. Anche i materiali utilizzati – la pietra bianca e il basalto nero – raccontano una storia di radicamento territoriale e di padronanza delle risorse locali, restituendo l’immagine di una nobiltà tanto colta quanto concreta.
Oggi, osservando l’edificio che un tempo fu una semplice caneva, è possibile cogliere le tracce di questa metamorfosi. Le proporzioni armoniche, le decorazioni raffinate, la qualità dei materiali e la cura nei dettagli testimoniano un’evoluzione che ha coinvolto non solo l’aspetto fisico dell’edificio, ma anche il suo significato culturale. Da anonimo magazzino agricolo, l’edificio si è trasformato in un esempio compiuto di architettura rurale nobiliare, capace di dialogare con la villa principale e di partecipare alla costruzione simbolica del paesaggio.
In conclusione, la caneva del Marchese, così come appare nel disegno del 1691, costituisce il punto di partenza di un percorso architettonico e culturale che conduce fino all’attuale struttura. Un percorso che attraversa secoli di storia, trasformazioni sociali, scelte estetiche e interventi edilizi, e che restituisce all’edificio un ruolo centrale nella comprensione dell’evoluzione del territorio vicentino tra età moderna e contemporaneità.
UMBERTO RAVAGNANI

FOTO: 1) La ‘caneva del Marchese’, oggi ristorante ‘The Towers’. (foto Umberto Ravagnani).
2) La ‘caneva del Marchese’ in una foto di circa cinquant’anni fa.
NOTA: 1) Una ricomposizione da un disegno dei periti Bortolomeo Munari e Angelo Zanovello del 1691 è stata pubblicata nell’articolo n. [324] del 9/2/2023: “L’astuzia del Marchese Malaspina”.
2) In tempi recenti una spessa mano di intonaco bianco, applicata sull’intero l’edificio, non consente più di apprezzare questo interessante contrasto cromatico.
BIBLIOGRAFIA:
– L.Bedin, “Santa Maria di Montebello” Vol II, Montebello Vicentino 2018;
– R.Schiavo, “Montebello Vicentino – Storia e Arte”, Publigrafica Editrice, 1992;
– O.Gianesato, “Il ‘700 giorno per giorno”, 2005.

Umberto Ravagnani

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L’ULTIMA CARICA

 

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E LA FEDE FERMÒ IL MORBO

[438] E LA FEDE FERMÒ IL MORBO
1792, l’anno in cui tutti a Montebello pregarono

Alla fine del Settecento, Montebello era un piccolo centro abitato dove la vita seguiva il ritmo costante dei campi, delle stagioni e delle campane. Gli abitanti erano legati alla loro terra e alle consuetudini religiose che da secoli ne accompagnavano l’esistenza. Ogni famiglia, ogni casa, ogni strada aveva una storia antica, tramandata con rispetto e parsimonia. In quella comunità raccolta, la fede occupava un posto naturale, concreto, quasi quotidiano. La Chiesa Prepositurale era il fulcro di questa presenza, e al suo interno, in una nicchia del secondo altare sulla destra, si trovava una statua molto cara a tutti.
La Madonna della Concezione era rappresentata seduta, avvolta da un manto dorato. Una corona le cingeva il capo. Sulle sue ginocchia, il Bambino, anch’egli incoronato, reggeva con la mano sinistra un globo sovrastato da una croce, mentre con la destra indicava le tre persone della Trinità. Maria portava in mano la corona del Rosario. Il volto della Vergine era sereno, lo sguardo basso, come assorto in una pace che ispirava quiete e fiducia. La figura, scolpita nel legno di tiglio, era tanto familiare ai montebellani da essere parte della loro identità collettiva. Nessuno sapeva chi l’avesse realizzata, né quando, con precisione. Si supponeva fosse opera del Quattrocento, forse creata su incarico della Congregazione di Santa Maria della Concezione, in seguito al decreto con cui papa Sisto IV aveva istituito nel 1476 la festa dedicata all’Immacolata.
Per secoli, la statua aveva raccolto preghiere, richieste, promesse. Ma nell’anno 1791, la sua presenza si era fatta assente. La vecchia Chiesa parrocchiale era stata demolita per essere sostituita con una nuova costruzione, e l’immagine sacra era stata rimossa e custodita temporaneamente in un locale secondario, accanto ai mantici dell’organo. Non era stata dimenticata, ma era stata posta da parte, fuori dallo sguardo quotidiano dei fedeli.
Fu proprio in quel periodo che Montebello si trovò a fronteggiare uno degli eventi più duri della sua storia. Era l’inizio dell’estate quando i primi casi di tifo si manifestarono. All’inizio si trattò di episodi isolati, poi la diffusione divenne rapida, inarrestabile. Le famiglie si ammalavano nel giro di pochi giorni, e molti non riuscivano a sopravvivere. L’epidemia colpì senza distinzioni. L’angoscia prese il sopravvento. Intere case si chiusero nel silenzio della malattia. Il rumore delle campane si fece costante, monotono, doloroso.
La paura si fece presto paralizzante. Pochi trovavano il coraggio di assistere gli ammalati. Mancava la forza, mancava la speranza. Il Collegio della Pubblica Sanità di Vicenza, allertato dalla gravità della situazione, inviò un medico per esaminare i contagi e suggerire soluzioni. Ma le conoscenze mediche del tempo erano limitate. Non c’erano cure efficaci. Si consigliava l’isolamento, qualche rimedio empirico, ma nulla fermava il corso del morbo. Le famiglie si spegnevano una dopo l’altra, mentre il paese sprofondava in una desolazione difficile da raccontare.
Nel mezzo di quel periodo oscuro, riemerse il ricordo della Madonna. Qualcuno, con voce sommessa, ricordò le grazie ricevute per sua intercessione. Si parlò della statua, da tempo messa da parte, che in passato aveva accompagnato momenti difficili con la sua presenza discreta e potente. Fu una memoria che si fece proposta: riportarla alla luce, pregarla, invocare il suo aiuto. Non un gesto magico, ma un appello condiviso, una forma di fiducia che superava la razionalità.
Quando la notizia si diffuse, la reazione della popolazione fu immediata. Non si trattò di un evento organizzato, ma di un moto spontaneo, collettivo. Nessuno restò indifferente. I montebellani decisero di rimettere la statua al centro della vita del paese. Il coro della nuova chiesa, recentemente costruito e da poco aperto al culto, fu scelto come luogo per l’esposizione. E così, il 12 maggio del 1792, l’antica immagine tornò a farsi vedere.
L’esposizione fu semplice, ma carica di significato. La statua, pur segnata dal tempo, conservava intatto il suo volto familiare. Chi entrava in chiesa riconosceva subito quel volto, quel gesto, quella compostezza. Tornò naturale inginocchiarsi, tornò naturale recitare il Rosario, affidare le proprie paure a quello sguardo calmo. I fedeli accorrevano uno dopo l’altro. Nessuno parlava ad alta voce. Le preghiere erano sussurrate, le lacrime trattenute. Ma la presenza era forte, tangibile.
La chiesa rimase aperta ininterrottamente. Giorno e notte si avvicendavano gruppi di devoti. Alcuni si fermavano per pochi minuti, altri restavano a lungo, in silenzio. Non c’era bisogno di parole. Bastava la presenza. La Madonna era tornata, ed era tornata proprio quando Montebello ne aveva più bisogno.
A partire da quel giorno, qualcosa cambiò. In modo graduale, ma netto. I contagi cominciarono a diminuire. I malati, uno dopo l’altro, iniziarono a guarire. Le famiglie smisero di contare i morti e cominciarono a rivedere i vivi. I medici non seppero spiegare l’accaduto. Ma la comunità non aveva bisogno di spiegazioni. Avevano pregato, avevano sperato, e la risposta era arrivata.
In breve tempo, l’epidemia cessò del tutto. I montebellani uscirono di casa, si riabbracciarono, ricominciarono a vivere. Era finita. In molti parlarono di miracolo. Altri preferirono non usare quella parola. Ma nessuno negò che quel ritorno aveva rappresentato una svolta. La memoria di quell’evento fu custodita con cura.
Francesco Bonomo*, cronista attento e preciso, annotò tutto in una cronaca dettagliata che oggi è conservata nell’archivio parrocchiale. È grazie a lui se oggi conosciamo la sequenza dei fatti, l’atmosfera di quei mesi, il senso profondo che ebbe la rinnovata esposizione della Madonna. La cronaca non ha toni enfatici, ma trasmette con chiarezza ciò che accadde.
Da quel momento, la statua tornò a occupare il suo posto nella chiesa prepositurale. Da allora, non è mai più stata spostata. È lì, al secondo altare a destra, visibile a tutti, visitabile ogni giorno. Nel 1885 fu sottoposta a un restauro, finanziato con le offerte del popolo e del clero, come segno di affetto e riconoscenza. Il restauro ne ha conservato le caratteristiche originarie, senza alterarne la semplicità.
Ogni cinque anni, Montebello ricorda quanto accadde con una celebrazione solenne: la Festa Quinquennale della Madonna. Non è solo una cerimonia religiosa, ma una memoria viva, un legame con ciò che la comunità ha vissuto e superato insieme. È la testimonianza di un legame profondo tra la popolazione e quella figura antica, che ha saputo dare conforto nei giorni più duri.
Nel maggio 2025, si celebrerà la ventottesima edizione di questa festa. Sarà, ancora una volta, un’occasione per rivedere la statua, rinnovare la preghiera, ricordare l’anno in cui Montebello ritrovò se stesso nel momento più difficile. E chi entrerà nella chiesa, si troverà davanti quello stesso sguardo calmo, la stessa mano sollevata, la stessa corona. E forse sentirà ancora, in quel silenzio, l’eco di quel giorno in cui la speranza tornò a camminare. UMBERTO RAVAGNANI

NOTA: * Francesco Bonomo morì il 15 febbraio 1830, nella stessa casa di Montebello dove nacque nel 1736. Uomo affabile e retto, per oltre quarant’anni fu cancelliere del paese, mantenendo equilibrio anche nei momenti più turbolenti. Più che un impiegato, fu custode della memoria: raccoglieva storie, tradizioni e scrisse un diario dettagliato durante le guerre napoleoniche. Parte dei suoi scritti è andata perduta, ma il cuore della storia locale porta ancora il suo nome.
FOTO: MONTEBELLO: La Madonna di Montebello durante la Solenne del 2015 (foto Umberto Ravagnani).
FONTE: Cronaca di Francesco Bonomo (Archivio Parrocchiale di Montebello).

Umberto Ravagnani

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IL VIALE DEGLI IPPOCASTANI

 

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RODOLFO FREALDO

 

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LE VOCI DEL PASSATO

 

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RISO AMARO

 

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GIUSTIN VALMARANA

 

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IL MONTE DEI FRATI

 

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LETTERE A MARIA

 

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LA VISPA TERESA

 

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IL RITRATTO STRAPPATO

 

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UN SECOLO DI “MURARI”

 

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RECLUTE E SOLDATI IN FUGA

 

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UN NATALE DI SPERANZA

 

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DON EUGENIO XOMPERO

 

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A. PEDROLLO UN GENIO MUSICALE

[420] ARRIGO PEDROLLO: un genio musicale
Una vita dedicata alla musica, tra innovazione e tradizione

Il 23 dicembre 2024 segnerà il sessantesimo anniversario della scomparsa di Arrigo Pedrollo, straordinario compositore di Montebello Vicentino. La sua musica, ricca di sfumature e intensità, rappresenta un ponte tra tradizione e innovazione. Pedrollo non era solo un musicista, ma un autentico poeta dei suoni, capace di raccontare emozioni universali attraverso le sue note. La sua eredità artistica continua a risuonare, ispirando nuove generazioni e mantenendo viva la memoria di un talento unico. Celebrare Pedrollo significa onorare un faro della nostra cultura musicale, un esempio eterno di passione e genio creativo.
Nato il 5 dicembre 1878 a Montebello Vicentino, Arrigo Pedrollo rappresenta uno dei nomi più brillanti della musica italiana del XX secolo. La sua vita e la sua carriera testimoniano un raro connubio di talento, dedizione e visione, che gli hanno permesso di conquistare un posto di rilievo nel panorama lirico e sinfonico internazionale.
Figlio di Luigi Pedrollo, organista e direttore di banda, e di Santa Businello, Arrigo crebbe in un ambiente ricco di stimoli musicali. Il talento precoce del giovane Pedrollo si rivelò già in tenera età: a soli quattro anni suonava composizioni di Chopin, mentre a cinque otteneva i suoi primi riconoscimenti pubblici. La contessa Elisa Marsilio Orgian Piovene, colpita dalle sue doti, intervenne per introdurlo ai maestri Antonio e Gaetano Coronaro.
Grazie a questo sostegno, nel 1892 Pedrollo fu ammesso al Conservatorio di Milano, distinguendosi come il migliore tra undici candidati. Qui studiò pianoforte sotto la guida di Guglielmo Andreoli e approfondì armonia e composizione con Gaetano Coronaro, ereditando una solida preparazione che sarebbe stata alla base della sua futura produzione musicale. Durante gli anni di studio, la sua versatilità lo portò a diventare “maestrino”, insegnando pianoforte e solfeggio a studenti più giovani.
Nel 1900, a conclusione del suo percorso di studi, Pedrollo presentò la sua Sinfonia in Si Minore, conosciuta come La romantica. L’opera, articolata in quattro movimenti, fu diretta nientemeno che da Arturo Toscanini, un evento straordinario per un giovane compositore. Questo riconoscimento segnò un momento cruciale per la sua carriera, consacrandolo come un talento emergente nel panorama musicale italiano.
Il 1908 segnò una tappa fondamentale per Pedrollo con la vittoria del Concorso Sonzogno grazie alla sua prima opera lirica, Juana. Basata sul libretto di Carlo De Carli, Juana si distinse per la complessità emotiva e narrativa, combinando tradizione e sperimentazione. L’opera debuttò nel 1914 al Teatro Eretenio di Vicenza, riscuotendo un grande successo e venendo replicata in molti altri teatri italiani.
Parallelamente, Pedrollo compose Terra Promessa, un’opera che esplorava tematiche bibliche e spirituali attraverso una scrittura musicale raffinata. Presentata per la prima volta al Teatro Ponchielli di Cremona, l’opera fu accolta con entusiasmo e successivamente rielaborata nel 1913, confermando l’abilità del compositore di innovare pur rimanendo radicato nella tradizione.
Il 1920 rappresentò un anno chiave nella carriera di Pedrollo, segnato dalla presentazione di due delle sue opere più importanti: La veglia e L’uomo che ride. La prima, rappresentata al Teatro dei Filodrammatici di Milano, si caratterizzò per un’intensa carica emotiva e un linguaggio musicale innovativo. Accolta con entusiasmo, l’opera fu replicata in Italia e all’estero, arrivando anche al Metropolitan di New York.
Contemporaneamente, Pedrollo portò in scena L’uomo che ride, un adattamento del celebre romanzo di Victor Hugo. Quest’opera, messa in scena al Teatro Costanzi di Roma, consolidò la sua reputazione come uno dei compositori più apprezzati del suo tempo, dimostrando la sua capacità di tradurre grandi capolavori letterari in esperienze musicali di grande impatto.
Milano divenne la città d’elezione per Pedrollo, non solo come compositore ma anche come docente. Nel 1924, Maria di Magdala, un’opera lirica ispirata a temi evangelici, debuttò al Teatro Dal Verme, ottenendo grande successo. Due anni dopo, il compositore presentò Delitto e castigo, tratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij, alla Scala di Milano. Quest’opera, caratterizzata da una scrittura orchestrale audace e da un’intensa introspezione psicologica, rappresentò uno dei vertici della sua carriera.
Parallelamente all’attività compositiva, Pedrollo assunse nel 1929 la cattedra di contrappunto al Conservatorio di Milano, contribuendo alla formazione di una nuova generazione di musicisti e consolidando il suo ruolo nella scena musicale italiana.
Negli anni Trenta, Pedrollo continuò a creare opere di grande rilievo, come Primavera Fiorentina e L’amante in trappola, quest’ultima basata su una novella del Decamerone. Queste composizioni, apprezzate sia in Italia che all’estero, dimostrarono la capacità del compositore di rinnovare il linguaggio musicale senza abbandonare le radici della tradizione lirica.
Un’altra opera significativa fu Il giglio di Alì, composta negli anni Quaranta e frequentemente trasmessa dalla Rai. Questo lavoro riflette la maturità artistica di Pedrollo, capace di combinare elementi tradizionali e moderni con una sensibilità unica.
Nel 1941, Pedrollo lasciò il Conservatorio di Milano per dirigere il Liceo Musicale Pollini di Padova. Tuttavia, il legame con la sua terra d’origine rimase sempre forte, e nel 1942 tornò a Vicenza, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Sebbene in questa fase la sua attività compositiva si fosse ridotta, Pedrollo continuò a essere una figura di riferimento nella scena musicale italiana.
Arrigo Pedrollo è stato un compositore capace di unire tradizione e innovazione, creando opere che ancora oggi risuonano per la loro profondità emotiva e il loro valore artistico. Dalle sue prime composizioni sinfoniche ai capolavori lirici, la sua carriera rappresenta un modello di dedizione e genialità.
Oggi, il suo lavoro è un tesoro che merita di essere riscoperto, non solo come testimonianza di una straordinaria epoca musicale, ma anche come esempio di un artista che ha saputo interpretare il suo tempo con passione e visione.
Nel 1924, Arrigo Pedrollo creò la Marcia dei Combattenti, un omaggio carico di emozione per l’inaugurazione del monumento ai caduti di Montebello. Questa composizione per banda, che potrebbe essere ancora custodita negli archivi della banda civica locale, rappresenta un pezzo di storia e tradizione che meriterebbe di essere riscoperto e valorizzato.
Un sincero ringraziamento va al nipote di Arrigo, Raffaello Pedrollo, il cui contributo informativo è stato indispensabile per questo nostro articolo. Raffaello inoltre ci informa della recentissima produzione del CD di La Veglia da parte del soprano Denia Mazzola Gavazzeni pubblicata da Bongiovanni Bologna e che la Nuova Orchestra Pedrollo, un’orchestra d’archi attiva dal 2014, si esibisce regolarmente, mantenendo vivo il nome del maestro. Alcune registrazioni, disponibili su YouTube, permettono di riscoprire il fascino della sua musica.

LA NUOVA ORCHESTRA PEDROLLO è composta da musicisti che scelgono di incontrarsi, condividere esperienze e intrecciare storie attraverso la musica. Ogni prova è un dialogo tra note scritte e mani che le rendono vive, rivelando una bellezza nascosta. La musica diventa arte viva, arricchita dai luoghi, dalle emozioni del pubblico e dall’unione di strumenti.

ARRIGO PEDROLLO: WALZER - Ascolta ...

Arrigo Pedrollo: Walzer / Gabriele Dal Santo, pianoforte e direttore – Nuova Orchestra Pedrollo /
Registrata al Teatro Olimpico, Vicenza nel 2014, in occasione del 50esimo della morte di A. Pedrollo.

Violini I:
M° Giovanni Guglielmo, primo violino
Irene Pedrollo, Andrea Giacometti, Alessandro Gasperini, Giulio Marangoni, Eleonora Dal Santo

Violini II:
Tiziano Guarato, Enrica Ronconi, Laura Mazza, Giulia Menara

Viole:
Lisa Bulfon, Michele Sguotti, Nicola Possente, Pamela Micoli

Violoncelli:
Daniele Cernuto, Massimiliano Varusio, Anna Grendene

Contrabbassi:
Michele Gallo, Antonio Danese

Arpa: Giulia Rettore

Umberto Ravagnani

BIBLIOGRAFIA:
– G.Maccagnan, Una vita per la musica, 2018;
– F.Grassi, Arrigo Pedrollo, 1979.
– Testi del soprano Denia Mazzola Gavazzeni per la recentissima registrazione di “La Veglia” – Bongiovanni Bo 2024.
FOTO:
1) Il Maestro Arrigo Pedrollo ai tempi di “Juana” – 1914. Sullo sfondo ritratto di Giosuè Carducci con dedica (dal libro Arrigo Pedrollo di Francesco Grassi).
2) Lettera manoscritta inviata da Arrigo Pedrollo ad un suo ammiratore a l’Havana (Cuba), il 26 novembre 1924. All’interno le prime note dell’opera “Maria di Magdala” (collezione privata Umberto Ravagnani).
3) Arrigo Pedrollo all’epoca di “L’uomo che ride“, esattamente un secolo fa, in prima pagina sulla prestigiosa rivista “Musica e Scena”.

Vedi anche gli articoli n.[150] del 5/9/2019 “ARRIGO PEDROLLO” in e n.[359] del 12/10/2023 “Memoria per ARRIGO PEDROLLO”.

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