MONTEBELLO TRA STORIA E MITO

MONTEBELLO TRA STORIA E MITO

[463] MONTEBELLO TRA STORIA E MITO
Dal villaggio preromano alla rocca medievale

Montebello Vicentino appare, a chi lo guarda da lontano, come un borgo raccolto e silenzioso, disteso ai piedi di colline che segnano il confine tra le dolci armonie vicentine e i paesaggi più severi che guardano verso Verona. Ma basta avvicinarsi per scoprire che dietro la sua calma si cela una storia che affonda le radici molto più in profondità di quanto l’occhio possa intuire. È il 1940 quando lo scrittore Alessio De Bon, accompagnato dallo storico locale Bruno Munaretto, si mette sulle tracce di un antico nome romano: “Aureos”, una stazione segnata negli itinerari a venti miglia da Verona (ca. 30 Km.) e undici da Vicenza (ca. 17 Km.). Forse proprio Montebello.
Munaretto non è una guida qualsiasi. È giovane, ma già custode appassionato delle memorie di questa terra. Ha scritto della battaglia di Sorio, disegnando lui stesso le tavole che accompagnano il racconto, piene di quella sincerità un po’ ingenua che tradisce non solo studio ma partecipazione emotiva. Ha scritto molti libri, tra questi, anche la storia di Montebello, guadagnandosi l’attenzione di personaggi illustri come il generale Giuseppe Vaccari. Munaretto è uno che non osserva soltanto, ma che sente le voci di queste colline e cerca di dar loro parola.
La prima tappa è un luogo apparentemente anonimo: il casale detto “la Masòn”. A occhio moderno non è che un gruppo di case rurali, ma qui, in epoca medievale, sorgeva una “mansio” dei cavalieri del Tempio, appartenenti all’ordine di San Giovanni di Gerusalemme. Quegli uomini che accoglievano i pellegrini diretti in Terrasanta e i malati bisognosi, ma che sapevano anche difendersi con la spada. Dentro, una cantina monumentale impressiona per le sue proporzioni, restaurata di recente, quasi un’architettura che avrebbe potuto attrarre l’occhio di un Piranesi. All’esterno, piantato nel terreno, un piccolo pilastrino bianco: a chi lo sa leggere, è una pietra miliare romana. Nessuna scritta leggibile, ma non sempre ce n’erano. La sua presenza basta a indicare un tracciato che per secoli ha visto passare uomini, eserciti e viaggiatori.
Quella via, chiamata poi «Strada Morta», univa Altavilla alla cosiddetta “Ca’ dei Sorci”. Il nome incuriosisce e Munaretto spiega che nulla ha a che fare con i roditori. Era invece la terra di un vescovo medievale, de Sordis Cacciafronte, assassinato con un pugnale. Il suo cognome, nel tempo, fu storpiato in “Sorzi” e poi in “Sorci”. Una svista linguistica trasformata in toponimo.
Poco più a sud, ai piedi del colle di Fara, sorge la casa dei conti Quinti. Nei campi circostanti si scavarono un tempo le fondamenta di una villa romana, studiate da monsignor Giarolo. Non tutto fu portato alla luce. Ancora oggi, sotto la terra fangosa, i contadini trovano tombe e ruderi. Una presenza che attende solo di essere rivelata.
La salita verso il colle è dolce e lenta. Lo sguardo si allarga sui colli, e lassù, isolato come un’acropoli, si staglia il castello dei Maltraversi. Munaretto invita a guardare il terreno: tra le righe del frumento giovane, centinaia di frammenti di terracotta riaffiorano. Sono i resti di un insediamento antichissimo, di gran lunga precedente all’arrivo dei Romani. In una casa isolata sulla sommità furono trovate tombe di cremati, con vasi cinerari attorno a cui si disponevano ornamenti di bronzo, collane grezze, punte di frecce. Qualche reperto è finito al museo di Vicenza, ma la maggior parte si è persa. Restano quei frammenti poveri che, stretti nel palmo della mano, bastano a evocare ere lontane, quando la storia non era ancora scritta.
Sono resti che parlano di comunità del X secolo avanti Cristo, quando Roma non esisteva ancora. Villaggi che già dominavano fiumi e vallate, testimoni di un tempo in cui la civiltà si misurava con la comparsa della pietra, del bronzo e infine del ferro. Erano Veneti, arrivati da lontano, o Reti, signori di Verona? Non lo sapremo mai con certezza. Ma da quell’intreccio di stirpi è nata la gente di oggi, con la sua forza e la sua gentilezza.
Con l’Impero romano il paesaggio cambiò. Ai piedi dei colli sorse un borgo, vicino alla grande strada consolare. La canonica custodiva monete di Augusto, di Vespasiano, di Traiano. Lì fu trovata anche un’iscrizione dedicata a un seviro augustale, un magistrato locale. Erano i segni di una comunità che viveva in relativa tranquillità, protetta dalla pace dell’Impero e dal passaggio continuo di uomini e merci. Ma con l’arrivo dei barbari, la gente abbandonò la pianura per tornare sui colli. Lì nacquero i castelli medievali che ancora oggi disegnano la valle: Brendola, Montecchio, Montorso, Arzignano, Lonigo e naturalmente Montebello, con la sua rocca.
Il castello di Montebello ha visto passare secoli di lotte e di signori. I Maltraversi lo eressero, ma poi venne Cangrande della Scala, che distrusse il fortilizio di Brusaporco, sul monte del Lago, e issò il vessillo imperiale sul castello. Secoli dopo, Massimiliano d’Austria tentò a sua volta la conquista, ma fu respinto dagli abitanti e dagli stradioti veneziani*. Per quel coraggio, la Repubblica di Venezia premiò Montebello con l’esenzione dalle tasse.
Gli anni scorrevano, portando nuove epoche. I rivoluzionari piantarono l’albero della libertà, anche se la popolazione restava legata al vecchio San Marco. Napoleone passò con le sue truppe, lasciando dietro di sé turbamenti e nuove regole. Infine, nell’Ottocento, giunse l’Italia, con i fanti di Marcantonio Sanfermo che issarono il tricolore.
Oggi, chi sale al castello lo fa lungo viali settecenteschi  dove i cipressi e i pini marittimi si ergono fieri, e il panorama si apre come un ventaglio. Varcata la grande porta ad arco, il silenzio domina i cortili, interrotto solo dal volo dei colombi e dal suono di una piccola campana. Il pozzo coperto custodisce leggende di popolo, mentre una porticina nascosta offre un colpo d’occhio sconfinato: pianure, colline, nebbie sospese, paesaggi che avrebbero fatto vibrare la sensibilità di Leopardi.
Dentro, invece, il castello rivela un’anima ottocentesca, fatta di ambienti che sembrano usciti da un melodramma romantico. Finestre archiacute, sale che evocano dame e poeti, una marchesa che forse qui visse, corteggiata da ufficiali imperiali e amata da letterati. Tutto appare lontano, un po’ artificiale, quasi un palcoscenico. Eppure quelle atmosfere si intrecciano con i secoli precedenti, con le monete romane, con i resti di terracotta, con i nomi perduti delle genti che abitarono queste colline.
Montebello non è mai stato un semplice paese. È un mosaico di epoche sovrapposte, una memoria viva che si manifesta in ogni pietra e in ogni racconto. De Bon e Munaretto, camminando tra vigne e cortili, tra ruderi e ricordi, ne hanno la prova. Cercavano un’antica stazione romana, ma hanno trovato molto di più: il cuore stesso di una terra che non ha mai smesso di respirare la propria storia.

FOTO: Il grande portale d’ingresso del castello di Montebello Vicentino (foto Umberto Ravagnani 2021).
NOTA: * Gli stradioti veneziani erano bellicosi mercenari greco-albanesi che combatterono al servizio della repubblica veneziana tra il XIV e il XVII secolo.
BIBLIOGRAFIA: A. De Bon, “STORIA E LEGGENDE DELLA TERRA VENETA”, Schio, 1941.

Umberto Ravagnani

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