[446] I GIARDINETTI DEL PONTE
Storie e risate contro il regime
All’inizio degli anni Trenta del Novecento, l’Italia era saldamente sotto il controllo del regime fascista. Mussolini era al potere da quasi dieci anni e il suo governo sembrava forte e incontrastato. Le piazze erano piene di manifesti, i giornali scrivevano solo ciò che faceva comodo al potere, e ogni gesto pubblico era attentamente controllato. Ma nonostante la propaganda martellante, nelle case, nei bar, e lungo le strade di tanti paesi, le persone continuavano a pensare con la propria testa.
Montebello era uno di quei luoghi dove il fascismo non era mai riuscito del tutto a mettere radici nel cuore della gente. Certo, in pubblico si stava zitti, o si fingeva di approvare. Ma nei luoghi informali, tra amici o tra conoscenti, la critica emergeva, anche se in modo leggero, spesso ironico.
Il regime aveva grandi piani per l’Italia. Uno di questi era l’espansione coloniale in Africa. L’Italia già controllava alcuni territori, ma Mussolini voleva di più. Così, nel 1935, con il pretesto di un conflitto minore accaduto in un posto lontano chiamato Ual Ual *, nel dicembre del 1934, le truppe italiane partirono per conquistare l’Etiopia.
La notizia dell’invasione arrivò anche a Montebello. Alcuni giovani del paese decisero di unirsi alla spedizione. Non tutti per convinzione politica: in realtà, molti cercavano solo un lavoro. Partire per l’Africa, per loro, voleva dire avere uno stipendio e, forse, qualche possibilità in più in un’Italia che offriva ben poco a chi era senza mezzi.
La vita quotidiana a Montebello, infatti, non era facile. Molte famiglie vivevano di poco, spesso di niente. Il lavoro scarseggiava. Chi non aveva la fortuna di avere un impiego fisso faceva quello che capitava: un giorno nei campi, uno in una piccola fabbrica, poi magari tre giorni a casa senza nulla da fare.
La disoccupazione era talmente diffusa da aver creato una sorta di routine comune tra chi cercava lavoro. Al mattino, tanti si ritrovavano vicino alla Loggia comunale, sperando in una chiamata dall’ufficio di collocamento o da qualche contadino in cerca di aiuto per una giornata. Ma spesso l’attesa era inutile. Così, tornavano a casa per il pranzo – se c’era qualcosa da mettere in tavola – e poi uscivano di nuovo, per passare il pomeriggio in uno dei pochi luoghi pubblici accessibili a tutti: i giardinetti vicino al ponte Marchese.
Quel posto era poco più di un triangolo di terra, con qualche aiuola e quattro grandi alberi che offrivano un po’ d’ombra. Ma per tanti, era un piccolo rifugio. Si sedevano sul bordo delle aiuole, parlavano, si scambiavano notizie, ricordi e battute. Lì si respirava un’aria diversa. Non di festa, certo, ma neppure di disperazione.
C’erano persone che, nonostante tutto, conservavano una certa leggerezza. Anche chi era disoccupato da mesi non si lasciava andare al lamento continuo. Si mormorava, si criticava, ma senza perdere del tutto la voglia di scherzare. Il malumore si esprimeva con ironia. Le storie raccontate erano spesso comiche, anche quando nascevano dalla fatica e dalla povertà.
Si parlava di tutto. Di vecchi amori, ormai finiti, consumati lungo l’argine del Chiampo. Di episodi accaduti anni prima, in fabbrica o all’estero. Non mancavano i racconti di emigrazione: chi era stato in Francia o in Belgio tornava con aneddoti strani e curiosi. Altri ricordavano le disavventure con i gerarchi locali, quelli che si atteggiavano a padroni e che spesso si facevano detestare con i loro atteggiamenti arroganti.
Anche il fascismo era oggetto di battute. Ovviamente, si doveva fare attenzione. La polizia era sempre all’erta e bastava poco per essere denunciati. Qualcuno, a Montebello, aveva già fatto un giro nelle carceri di Lonigo solo per una parola di troppo. Per questo, si usavano soprannomi. Mussolini, ad esempio, veniva chiamato “boca mora”, un’espressione nata dal colore scuro con cui veniva stampata la sua immagine sui muri delle case. Era un modo per criticarlo senza nominarlo apertamente.
Quel linguaggio fatto di doppi sensi, sorrisi storti e barzellette era una forma di resistenza. Piccola, sì, ma non per questo meno importante. In un tempo in cui tutto sembrava bloccato, in cui si doveva applaudire anche quando non se ne aveva voglia, riuscire a ridere, a ironizzare, era un segno di libertà interiore.
E questa libertà viveva nei racconti che si intrecciavano sotto gli ippocastani, nel caldo pomeriggio di un’estate qualunque. Le storie nascevano una dopo l’altra. Una portava a un’altra, e un’altra ancora. Ognuno aveva qualcosa da dire, anche chi parlava poco. La memoria collettiva si costruiva lì, giorno dopo giorno, tra chi attendeva un lavoro e chi ormai aveva smesso di cercarlo.
La povertà era evidente, ma non faceva perdere del tutto la dignità. C’era chi arrivava da lontano, a piedi, e si fermava a riposare sotto l’ombra degli alberi. Chi si portava dietro un pezzo di pane secco. Chi raccontava la giornata senza esagerare, con un misto di amarezza e orgoglio. Era un mondo fatto di attese, ma anche di piccoli gesti condivisi.
In questo contesto, anche la speranza aveva una sua forma silenziosa. Nessuno faceva grandi discorsi. Ma tutti, in fondo, pensavano che quel periodo buio prima o poi sarebbe finito. Che il rumore delle marce e dei discorsi roboanti avrebbe lasciato spazio a qualcosa di più vero, più semplice.
Il fascismo, agli occhi di molti, sembrava sempre più una grande mascherata. Tutto troppo esagerato, troppo costruito. Le divise, i saluti, i discorsi alla radio, le promesse non mantenute. Dietro la facciata, c’era una realtà che la gente conosceva bene: quella della fatica quotidiana, delle bocche da sfamare, dei giovani costretti a partire per guerre che non comprendevano. E così, a Montebello, la gente non aveva bisogno di grandi discorsi per capirlo: bastava guardarsi intorno, ascoltare, ricordare. E sotto gli ippocastani, con una storia in bocca e un sorriso amaro sulle labbra, si continuava ad aspettare il giorno in cui tutto quel circo avrebbe avuto fine.
FOTO: 1) Dove c’erano i “Giardinetti del ponte del Marchese”, fu costruito un distributore della compagnia ‘Aquila’, 1960 circa. Oggi, al suo posto, vi è una grande rotatoria stradale (cortesia Michelangelo).
NOTA: * Nel 1934 nella località di Ual Ual, in Etiopia, vi si svolse uno scontro a fuoco tra truppe etiopi e truppe coloniali italiane che fu il fattore scatenante della Guerra d’Etiopia.
BIBLIOGRAFIA: – V.Nori, “Montebello Vicentino”, Vicenza, 1988.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.
Umberto Ravagnani
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