[449] NOTTE CHIARA A MONTEBELLO
Festa dell’uva, fuochi e illusioni
Nel 1938, Montebello cambiò volto per un giorno. L’Amministrazione Comunale, con uno slancio che mescolava ambizione e spirito celebrativo, decise di trasferire la “Festa dell’Uva” dal cuore storico del paese al viale della stazione. Fu una mossa audace, ma perfettamente in sintonia con i tempi. Il regime incoraggiava iniziative popolari che fossero al contempo spettacolari e disciplinate, e quel lungo viale alberato, ampio e ben visibile, offriva lo spazio ideale per una celebrazione dal respiro più ampio. Per giorni e giorni, gli abitanti si erano dati da fare. Donne con grembiuli infarinati intrecciavano corone di pampini, ragazzi si arrampicavano sugli alberi per appendere lanterne colorate, gli artigiani lucidavano botti e ruote di carri con lo zelo di chi sa di partecipare a qualcosa che resterà. Di sera, le luci veneziane — piccole fiaccole dalle tinte calde, appese tra i rami come frutti di fuoco — trasformavano il viale in un corridoio magico. Non erano luci qualsiasi: richiamavano la tradizione di Venezia, la prima città a brillare di notte, quando ancora nessuno sapeva cosa fosse l’illuminazione pubblica. A Montebello, quelle luci facevano brillare gli occhi anche ai più vecchi.
Poi arrivò il grande giorno. La gente, vestita a festa, cominciò ad arrivare già dal mattino. Dai paesi vicini giunsero a piedi, in bicicletta, a bordo di camioncini scassati carichi di bambini e fiaschi di vino. C’era un senso di attesa nell’aria, come se tutto il paese trattenesse il fiato. Quando il primo carro fece la sua comparsa, fu un’esplosione di applausi.
La sfilata era un tripudio. Ogni carro era un piccolo mondo: chi metteva in scena una vendemmia, con uomini finti ubriachi e ragazze che pigiavano l’uva a piedi nudi; chi ricreava una cantina con botti e candelabri; chi portava un intero vigneto in miniatura. E poi frutta, fiori, paglia, nastri, cori, costumi. L’orgoglio contadino si mescolava all’estro teatrale. Era una gara silenziosa tra contrade, ma senza invidia, solo con la voglia di stupire.
Le bande musicali scandivano il ritmo della parata. I tamburi facevano vibrare i petti, le trombe lanciavano note allegre nell’aria. I bambini correvano tra le gambe degli adulti cercando di afferrare grappoli lanciati dai carri. Gli odori si sovrapponevano: quello dell’uva spaccata al sole, del mosto versato a terra, dei panini col salame, del fumo delle caldarroste.
Con il calare del sole, il viale si accendeva di una luce irreale. Le lanterne tremolavano come stelle basse, i volti si coloravano d’ambra. La festa si spostava nel piazzale della stazione, che sembrava uscito da un film in technicolor. La banda saliva sul palco, i primi accordi facevano ondeggiare le coppie. Si ballava sotto il cielo, mentre dai chioschi si spillava vino rosso come sangue giovane. Poi, il gran finale. I fuochi d’artificio squarciarono il buio. L’intero paese guardava in silenzio, il naso all’insù, gli occhi pieni. Ogni esplosione era un colpo al cuore, ogni scia luminosa un sogno che si disegnava nell’aria. Per un attimo, Montebello sembrava il centro del mondo.
La festa fece il giro dei giornali provinciali. “Una sagra riuscita, un trionfo di popolo e identità” scrisse uno. Ma chi c’era, sapeva che nessuna parola bastava davvero. E quando tutto finì, il viale rimase. Tornò silenzioso, con le lanterne ormai spente e le foglie che iniziavano a cadere. Ma per i bambini, iniziava un’altra festa: la raccolta dei marroni caduti dagli ippocastani. Li raccoglievano come piccoli trofei, li caricavano su carretti improvvisati, li portavano a casa per fare brace, per scaldare i letti, per giocare alla vendemmia anche loro. Era la coda dolce dell’estate, quando la festa lasciava spazio alla vita vera — ma più piena, più bella, come se anche quella, in fondo, avesse ballato.
Ma quella festa non era nata per caso. Nel 1930, il Ministero dell’Agricoltura del Regno d’Italia istituì ufficialmente la “Festa dell’Uva”. Doveva svolgersi ogni anno, l’ultima domenica di settembre, e coinvolgere l’intera penisola. Il suo obiettivo? Apparentemente semplice: promuovere il consumo di uva da tavola e di vino. Ma dietro le quinte, si muovevano fili ben più profondi.
L’agricoltura italiana, in quegli anni, affrontava un problema serio: la sovrapproduzione d’uva. I raccolti superavano la domanda, le cantine erano colme, i contadini in difficoltà. Per il regime fascista, che vedeva nella terra e nel lavoro rurale il cuore dell’identità nazionale, questa crisi era inaccettabile. Ecco allora l’idea: trasformare il problema in opportunità. Trasformare l’uva in simbolo. Trasformare una necessità economica in celebrazione popolare. La regia dell’evento fu affidata all’Opera Nazionale Dopolavoro (O.N.D.), l’organismo creato nel 1925 per organizzare il tempo libero degli italiani. Ma non si trattava solo di svago: il dopolavoro serviva a plasmare il cittadino modello. Ogni escursione, ogni ballo, ogni conferenza agricola o torneo sportivo serviva a cementare il consenso al regime. La Festa dell’Uva, allora, era più di una sagra. Era un rituale collettivo. Una dimostrazione di disciplina, forza produttiva e spirito nazionale. Si celebrava l’uva, certo, ma anche il lavoro, la terra, l’Italia che produce e obbedisce. In questo clima, anche l’intrattenimento diventava strumento ideologico. I “Carri di Tespi”, piccoli teatri viaggianti voluti dal Ministero della Cultura Popolare, portavano opere e drammi in ogni angolo del Paese. Il loro nome veniva da Tespi, poeta greco considerato l’inventore del teatro itinerante. Niente era lasciato al caso: anche l’arte doveva servire la causa. Eppure, nonostante tutto, la festa conservava qualcosa di vero. La gioia dei bambini, la fatica dei contadini, il profumo del mosto. Perché l’uva era anche quella: sudore, orgoglio, vino condiviso al tramonto. E per molti, quella festa non fu solo propaganda. Fu un momento di luce in un’Italia che stava per entrare in tempi ben più bui.
FOTO: Un carro allegorico alla festa dell’uva di Montebello nel 1938 (rielaborazione Umberto Ravagnani).
BIBLIOGRAFIA: – P.Orano – I Carri di Tespi dell’O.N.D., Edizioni Pinciana, 1937.
– L.Mistrorigo, A.Maggio, “Montebello Novecento”, Montebello Vicentino, 1997.
Umberto Ravagnani
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