[442] AL FRONTE SENZA RITORNO – Schegge dal cielo

Quando GIUSEPPE ANTONIN, figlio di Michele e Dalla Grana Maria, classe 1889, si presentò alla visita di leva il 6 maggio del 1909, era un ragazzo di vent’anni nato e cresciuto in una terra di pianura, tra strade della campagna di Montebello e l’odore pungente delle stalle. Di professione faceva il maniscalco. Aveva davanti a sé un futuro aperto, forse ancora indefinito, ma di certo non immaginava che la guerra lo avrebbe preso e trattenuto fino all’ultimo respiro. Quel giorno risultò soldato di prima categoria, idoneo e pronto a servire il Regno d’Italia. Non era un’eccezione. Come tanti suoi coetanei, Giuseppe entrava in quell’ingranaggio di marce, addestramenti e disciplina che allora scandiva il tempo dei giovani uomini. Il 10 novembre dello stesso anno fu arruolato nel 1° Reggimento “Nizza Cavalleria”, una delle unità storiche dell’esercito, rinomata per il portamento elegante dei suoi cavalieri e per la severità degli addestramenti.
Giuseppe si distinse come maniscalco, mestiere che richiedeva forza e pazienza, ma soprattutto un rapporto diretto con gli animali. I cavalli, per lui, non erano solo strumenti di guerra, ma esseri viventi di cui prendersi cura. Eppure, anche il mestiere più “umano” del reparto non era esente da rischi. Il 7 novembre 1910, mentre tosava un cavallo, fu colpito da un violento calcio al ginocchio sinistro. Una contusione seria, registrata nei verbali del reggimento, che lo tenne fermo per quasi due settimane. Nulla di grave, a conti fatti. Ma fu uno dei primi segni tangibili che la vita militare lasciava un’impronta anche nei momenti di relativa pace.
Il 25 ottobre 1911 fu congedato dal Reggimento Lancieri di Vicenza, con l’annotazione formale, ma importante, di “buona condotta”. In quel momento sembrava tutto finito: un ciclo si era chiuso. Si tornava alla vita civile, forse a un lavoro in campagna o in una bottega. Ma la Storia, quella con la S maiuscola, aveva altri piani.
Il 2 agosto 1914, l’Europa bruciava. Con il Regio Decreto firmato pochi giorni dopo, anche l’Italia si preparava alla guerra, e Giuseppe fu richiamato alle armi. Il 12 agosto entrava a far parte dell’8° Reggimento Artiglieria da Campagna, sezione trasporti, il cosiddetto “Treno”. Erano i convogli logistici, i trasporti pesanti, il cuore silenzioso che teneva in vita le retrovie.
Alla fine di ottobre dello stesso anno, fu trasferito nuovamente a Vicenza, al Reggimento Lancieri, quasi come se un cerchio si stesse chiudendo. Ma era solo una tappa, uno dei tanti spostamenti che segnavano la vita dei soldati in quegli anni incerti.
La svolta decisiva arrivò il 22 aprile 1915: con la grande mobilitazione ordinata dal Re, l’Italia entrava ufficialmente nel conflitto. Verona diventò il suo punto di riferimento. Ogni giorno portava ordini, movimenti di truppe, richieste logistiche, notizie spesso contraddittorie. Ma la vera guerra, quella più sporca e letale, stava arrivando anche lì.
Il 2 giugno 1916, l’aria su Verona tremò. Gli aerei nemici — pochi e fragili, ma già carichi di morte — volavano sopra la città. Le bombe caddero a intermittenza, e una di quelle colpì Giuseppe. Non era in prima linea. Non era al fronte. Ma la guerra, lo si sa, non ha linee chiare. Una scheggia lo colpì con violenza. Le ferite erano gravi. Tre giorni dopo, il 5 giugno, Giuseppe moriva a Verona. Il suo nome comparve su un atto di morte datato 1° agosto, numero 733. Il Consiglio di Amministrazione del Reggimento registrò ufficialmente la sua morte il 20 giugno.
Il suo sacrificio fu riconosciuto. Il suo nome entrò nell’Albo d’Oro dei Caduti, tra migliaia di altri giovani che avevano lasciato il cuore e il corpo nei campi di battaglia, nei centri di comando, nelle città sotto attacco.
E mentre Giuseppe cadeva, un altro uomo combatteva. Suo fratello Giacomo, classe 1882, era anch’egli al fronte, nel 20° Reggimento Artiglieria da Campagna. Era poco distante, ma in un altro universo. Giacomo, a differenza di Giuseppe, tornò a casa. Sopravvisse alla guerra. Vide la fine dell’orrore e poté raccontarla. Due fratelli, due soldati, due destini diversi.
Giuseppe, invece, rimase a Verona, simbolo di una generazione interrotta. Non ci sono lettere sopravvissute, né fotografie note. Ma i documenti parlano abbastanza. Raccontano di un giovane uomo che ha servito con disciplina, che ha curato cavalli con le mani sporche di fatica, che è stato ferito in un giorno qualsiasi di pace, e poi ucciso in un giorno qualsiasi di guerra. In fondo, Giuseppe non aveva chiesto nulla di straordinario. Non era un eroe per vocazione. Ma il suo passaggio in questo mondo è rimasto inciso nelle carte ufficiali e nella memoria delle sue terre, come quello di tanti altri invisibili. E forse proprio per questo la sua storia merita di essere raccontata. Non per celebrare la guerra, ma per ricordare cosa essa chiede in cambio.
Un colpo di zoccolo, una scheggia, una firma su un decreto: questi i segni che hanno scandito il suo tempo. Niente medaglie, niente statue. Solo la certezza che Giuseppe c’è stato. E questo, a volte, è tutto ciò che conta. UMBERTO RAVAGNANI – OTTORINO GIANESATO
FOTO: Giuseppe Antonin (rielaborazione grafica Umberto Ravagnani).
BIBLIOGRAFIA: O.GIANESATO, MONTEBELLO E I SUOI CADUTI NELLA GUERRA 1915-18, 2014.
Umberto Ravagnani
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