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ADELE DE FILIPPI

[414] ADELE DE FILIPPI
Una Maestra coraggiosa

Montebello fu testimone di grandi sofferenze durante la Seconda Guerra Mondiale. Il periodo tra il 1944 e il 1945 vide i bombardamenti alleati colpire ferocemente il territorio, con raid destinati a fermare i rifornimenti nemici, specialmente lungo il tratto della linea ferroviaria Verona-Vicenza. In mezzo a questa realtà di distruzione e paura, l’insegnante Adele De Filippi continuò la sua missione educativa, determinata a non abbandonare i suoi alunni nonostante le difficoltà. Le pagine del suo diario, scritte con tono sobrio e preciso, sono una cronaca eccezionale di resistenza civile, fede nella missione educativa e speranza in un futuro migliore.
Tra le mura di una scuola elementare dove persino le lezioni diventavano a rischio, Adele insegnò la resilienza non solo attraverso le parole, ma con il suo esempio, offrendo ai bambini di Montebello un piccolo rifugio dalla guerra.
Il 2 settembre 1944 avrebbe dovuto essere, come ogni anno, l’inizio di una nuova avventura scolastica. Ma per la maestra Adele, quel primo giorno di scuola segnava l’avvio di un anno segnato da un profondo timore. Nel suo diario, annota che dei 28 alunni iscritti alla terza elementare, solo 20 si presentarono. La scuola, che di solito era un luogo sicuro, era ora minacciata dal continuo sorvolo degli aerei. “La frequenza quest’anno sarà ridotta” scrive, con una rassegnazione che racchiude le preoccupazioni di tante famiglie.
Molti genitori non si fidavano a lasciare i figli lontani da casa: Montebello Vicentino si trova vicino a una linea ferroviaria ed era uno degli obiettivi degli alleati. Le lezioni, tenute solo tre giorni a settimana, si svolgevano a orario ridotto, dalle 8:30 alle 12:30, a causa dell’occupazione parziale della scuola da parte delle truppe tedesche. Adele era consapevole delle difficoltà, ma continuò con perseveranza il proprio lavoro, adattandosi e cercando di garantire un’istruzione di qualità ai suoi alunni.
Le paure di Adele e della comunità si concretizzarono in modo tragico il 15 ottobre 1944. In una data scolpita nella memoria di Montebello, un bombardamento colpì la località dei Ronchi, portando devastazione e lutto: cinque civili persero la vita, e molte famiglie decisero di sfollare verso i paesi vicini. Adele scrive, l’indomani, che le presenze in aula erano drasticamente diminuite: “Gli alunni si presentano a scuola in numero ridottissimo.
I giorni successivi furono segnati dalla costante minaccia delle incursioni aeree. I bombardamenti sulla linea ferroviaria si intensificarono, e ogni nuovo attacco aggiungeva un peso di ansia nella comunità e nella scuola. “Nessun alunno si presenta più a scuola” scrive Adele il 31 ottobre, una frase che tradisce tutto il senso di impotenza e sgomento di un’educatrice che assiste alla lenta disgregazione della classe. La scuola rimase chiusa per settimane e le lezioni vennero sospese del tutto a novembre, poiché ormai la paura aveva preso il sopravvento.
Quando sembrava impossibile continuare a insegnare, Adele prese una decisione inaspettata: aprire le porte della propria casa per offrire lezioni ai pochi alunni che abitavano nelle vicinanze. “A dicembre, dato che a scuola non si presentava più nessun alunno, ho iniziato a dar lezione in casa” annota nel suo diario.
Nella sua abitazione, situata nei pressi di un rifugio, Adele organizzò piccole lezioni per chi poteva raggiungerla senza rischiare. Questo gesto divenne un simbolo di speranza e un atto di resistenza civile. Pur tra le difficoltà, la maestra continuava a insegnare, portando avanti il programma con quei pochi studenti che ancora potevano frequentare. La “scuola in casa” di Adele non era solo una soluzione pratica, ma anche il superamento di un evento traumatico e un segnale di dedizione: lei non avrebbe mai abbandonato i suoi alunni.
All’inizio del 1945, il direttore scolastico decise di riaprire l’edificio scolastico per riprendere le lezioni, nonostante la guerra non fosse ancora finita. Così, il 1 marzo 1945, Adele fece ritorno in aula, anche se il numero di studenti era estremamente ridotto: si presentarono solo tre bambini. La paura per la vicinanza della scuola alla linea ferroviaria, un costante bersaglio degli alleati, continuava a tenere lontane molte famiglie. Ma la maestra non si perse d’animo.
Con costanza, cercò di convincere i genitori a riportare i figli in classe, e grazie alla sua insistenza e a un nuovo orario delle lezioni, dalle 16:00 alle 18:00, riuscì a recuperare qualche studente. “A poco a poco ho raggiunto il numero di 10 frequentanti” scrive con soddisfazione il 15 marzo. Ogni bambino che ritornava rappresentava una piccola vittoria contro il terrore e una nuova luce nelle aule fino a poco tempo prima deserte.
Anche con le lezioni pomeridiane, il pericolo restava tangibile. Il 23 marzo, dopo l’inizio della lezione, un allarme aereo li costrinse a rifugiarsi. “C’è stato il mitragliamento e il bombardamento della linea ferroviaria” annota Adele, in un resoconto che mostra come ormai il paese avesse acquisito una sorta di rassegnata tranquillità. I bambini e Adele sapevano che l’aula poteva trasformarsi in un rifugio da un momento all’altro, ma questo non li fermava.
L’esposizione costante agli allarmi non abbatté il coraggio di Adele, che, anzi, continuava a infondere speranza nei suoi alunni. La sua classe era diventata una trincea morale, un piccolo spazio di resistenza, in cui lei e i bambini continuavano a sfidare il destino.
Il 17 maggio 1945 arrivò finalmente la tanto attesa Liberazione. Montebello Vicentino era libera dalla minaccia dei bombardamenti e Adele poté riprendere le lezioni in orario normale. Con grande sollievo, quasi tutti gli alunni iscritti tornarono in classe, riportando la scuola a una parvenza di normalità dopo mesi di paura e silenzio. Adele annota con orgoglio che quasi tutti i bambini si presentarono, segno che il ritorno alla normalità era vicino.
Alla fine dell’anno, la maestra scrisse un resoconto finale: “La scuola fu chiusa straordinariamente dal 20 al 22 ottobre 1944 e dal 24 aprile al 15 maggio 1945 per motivi bellici.” In poche righe, raccontava l’impatto della guerra su un anno scolastico, ma anche l’enorme valore della sua perseveranza, che aveva permesso alla scuola di restare viva.
Il diario di Adele De Filippi ci consegna una testimonianza preziosa di cosa significhi essere insegnante in tempi di guerra. La sua figura rappresenta quella di una donna che, nonostante tutto, ha scelto di non arrendersi, di continuare a credere nel potere dell’istruzione e nella capacità della scuola di dare speranza anche nei momenti più difficili.
La storia di Adele De Filippi è il ritratto di una maestra per cui il senso di responsabilità andava ben oltre il dovere: per lei, insegnare era un atto di amore e di fede verso il futuro dei bambini. Il suo esempio rimane vivo, ricordandoci che anche nei periodi più bui c’è sempre spazio per la dedizione e il coraggio.

Umberto Ravagnani

FOTO: Il bombardamento degli aerei alleati nella località Ronchi, a Montebello Vicentino, il 15 ottobre1944 (archivio fotografico Valentino Crosara).
NOTE: La maestra Adele De Filippi, figlia di Carlo e Angela Fabris, è nata il 29 agosto 1902 a Vicenza, si è diplomata nel mese di luglio del 1921 ed era insegnante di ruolo.
BIBLIOGRAFIA: O. Gianesato, U. Ravagnani e M. E. Dalla Gassa, LA VECCHIA SCUOLA ELEMENTARE DI MONTEBELLO VICENTINO, Amici di Montebello, 2018, Montebello Vicentino.

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RITROVARE SÉ STESSI

RITROVARE SÉ STESSI
La magia di un momento in cui tutto è possibile

 

Quest’anno, il Natale arriva portando con sé una sorpresa: invece della neve che cade soffice e silenziosa, fuori dalla finestra cade una pioggia fitta e ininterrotta. È un suono diverso, un ritmo che batte sulle strade e scivola sui vetri, lavando via l’atmosfera scintillante che forse ci saremmo aspettati. La scena è più malinconica, eppure intrisa di un fascino suo, come se questa pioggia volesse rivelarci qualcosa di nuovo, costringendoci a guardare al Natale con occhi diversi.
In questo panorama, mentre la pioggia continua a cadere, vedo un uomo con l’ombrello che passa davanti alla mia finestra. La sua figura scura si riflette nel vetro, si confonde tra le luci sbiadite e i riflessi delle gocce d’acqua. C’è qualcosa di poetico nella sua solitaria presenza, qualcosa che racconta di un Natale inaspettato, fatto di piccole presenze e di gesti semplici, e forse, più reali. E così, mentre lo osservo, penso a come, anche senza neve, il Natale continui a possedere il suo potere magico, e a come questa pioggia ci inviti a riscoprire ciò che davvero rende speciale questo momento.
A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai” ci dice la canzone, come a ricordarci che il Natale è un’occasione per fermarci, per riprendere in mano tutto ciò che il tempo ci ha tolto o che abbiamo dovuto abbandonare. In questo periodo dell’anno, siamo quasi autorizzati a sognare, a concederci quella libertà che sembra sfuggirci nella vita quotidiana. Anche senza la neve, con solo il rumore delle gocce che cadono, possiamo ritrovare quel tempo “che rincorrevi tanto.
È un invito a lasciarsi andare, a tornare a giocare come facevamo da bambini, a riprendere in mano i nostri sogni senza paura di sembrare ingenui. La pioggia ci invita a rallentare, a chiudere l’ombrello delle preoccupazioni quotidiane e a lasciarci cullare da un tempo diverso, più lento, fatto di attimi che abbiamo spesso dimenticato. Questo Natale ci offre la possibilità di riscoprire la bellezza del tempo perso, di fare pace con noi stessi e con il ritmo della vita, trovando spazio per tutto ciò che desideriamo davvero.
A Natale puoi dire ciò che non riesci a dire mai.” Quanto è vero! In questo momento dell’anno, sembra più facile lasciarsi andare, aprire il cuore e pronunciare quelle parole che troppo spesso restano sospese sulle labbra. Questo è il periodo in cui le emozioni possono finalmente emergere, in cui un “ti voglio bene” o un “scusa” assumono un significato profondo e si trasformano in veri e propri regali. Natale è un’opportunità per essere più vulnerabili, per far sentire la nostra voce, per superare il silenzio che, nei giorni ordinari, spesso ingabbia i nostri sentimenti.
Quest’anno, la pioggia sembra quasi volerci dare il coraggio di farlo, lavando via tutte le paure e le esitazioni. È come se quel cielo coperto ci invitasse a dimenticare la perfezione e ad abbracciare la sincerità. Se un passante, anche con un semplice sguardo sotto un ombrello, può diventare simbolo di una connessione silenziosa, allora quanto più possiamo costruire legami veri con chi ci sta accanto. La pioggia trasforma ogni parola detta in qualcosa di ancora più profondo, come se ogni goccia portasse con sé la forza della verità.
In queste giornate scure, la canzone ci ricorda che esiste una “luce blu” che brilla dentro di noi, una fiamma che illumina anche i momenti più grigi. Quest’anno, senza il bagliore della neve a rischiarare le strade, questa luce interiore diventa la nostra vera guida. Non è una luce che si può vedere, ma una che possiamo sentire, che nasce dall’amore e dall’umanità che Natale risveglia nei nostri cuori.
Questa luce blu è il desiderio di amore, di bontà, di vicinanza, un bagliore che si intensifica quando siamo in grado di aprirci agli altri e di vedere la bellezza in ogni cosa, anche in una giornata piovosa. “È la voglia che hai d’amore, che non c’è solo a Natale, che ogni giorno crescerà, se lo vuoi.” Natale ci insegna che questo bagliore può continuare a vivere anche dopo le feste, che possiamo portarlo con noi come un faro che ci guida a vivere ogni giorno con più amore e gentilezza. È un miracolo sottile e silenzioso, ma è forse l’essenza più autentica di questa stagione.
È Natale e a Natale puoi fidarti di più.” Fidarsi non è facile, ma Natale ci incoraggia a farlo, ad abbattere le barriere e a lasciare entrare gli altri nel nostro cuore. Questo periodo dell’anno sembra rendere tutto più semplice: le distanze si accorciano, i rancori si sciolgono, e la fiducia diventa un dono prezioso, tanto per chi la offre quanto per chi la riceve.
La figura dell’uomo con l’ombrello che passa sotto la mia finestra mi ricorda quanto ognuno di noi sia in viaggio, spesso solitario, sotto cieli che non sempre sono sereni. Natale ci offre la possibilità di avvicinarci agli altri, di trovare conforto nella presenza altrui, anche quando le parole non vengono pronunciate. Fidarsi significa creare legami, anche con chi è solo un passante nella nostra vita, perché ogni incontro può lasciare un segno se ci apriamo con autenticità.
È Natale e a Natale si può fare di più, si può amare di più.” Questo momento dell’anno ci invita a essere più generosi, non solo con chi amiamo, ma anche con chi incrociamo per caso lungo il nostro cammino. Il Natale ci chiede di fare spazio, di aprire il nostro cuore e di regalare un sorriso, un gesto gentile, un pensiero d’affetto.
Anche sotto la pioggia, anche senza la bellezza dei fiocchi di neve, possiamo scegliere di rendere speciale ogni giorno. Il Natale ci mostra ciò che potremmo essere ogni giorno dell’anno, se solo scegliessimo di vivere con questa stessa intensità, di amare senza riserve, di aprirci agli altri con fiducia. È come se Natale fosse un assaggio di un mondo migliore, una promessa che possiamo continuare a mantenere ogni giorno.
Alla fine, Natale è questo: non è solo un giorno, ma una scelta, un modo di vivere, una scintilla che possiamo tenere accesa per tutto l’anno. Anche quando il Natale sarà passato, anche quando il cielo non sarà più illuminato dalle luci festive, possiamo ricordarci di questa magia, di questo desiderio di fare del bene e di amare, come se fosse sempre Natale.

Umberto Ravagnani

LA CASA DEL FASCIO A MB

[413] LA CASA DEL FASCIO A MONTEBELLO
Fulcro della vita fascista

Nel periodo che seguì la marcia su Roma del 1922, l’Italia visse una trasformazione profonda, non solo politica, ma anche sociale e culturale. Benito Mussolini, leader del Partito Fascista, consolidò gradualmente il proprio potere fino a diventare un dittatore, e la sua visione per il Paese divenne chiara: un’Italia potente, unificata e militarizzata, pronta a conquistare un posto di rilievo tra le grandi potenze mondiali. Al centro di questo progetto c’era l’educazione delle nuove generazioni, che dovevano essere plasmate fin dall’infanzia secondo i principi della disciplina, dell’obbedienza e del patriottismo, tutto sotto l’egida del regime fascista.
Per Mussolini, la gioventù rappresentava la chiave per assicurare il futuro del fascismo. L’obiettivo del regime era semplice ma ambizioso: creare una generazione di italiani pronti a combattere per la gloria dell’Italia e per la creazione di un nuovo impero. Non si trattava soltanto di educare i giovani nei valori della patria, ma di trasformarli in veri e propri soldati. Per raggiungere questo scopo, il regime creò una rete di organizzazioni giovanili rigorosamente controllate dallo Stato.
Tra le principali associazioni fasciste troviamo i Figli della Lupa (per i bambini dai 6 agli 8 anni), i Balilla (dai 8 ai 14 anni), le Piccole Italiane per le ragazze, gli Avanguardisti e le Giovani Italiane (fino ai 18 anni) e infine i Giovani Fascisti, che comprendevano i giovani adulti già prossimi alla chiamata militare. L’adesione a queste organizzazioni non era una semplice opzione, ma un obbligo che scandiva la vita di tutti i ragazzi italiani. Ognuno di loro indossava una divisa specifica per la propria età e grado, e partecipava regolarmente a manifestazioni pubbliche, esercitazioni fisiche e lezioni di dottrina fascista.
Anche nelle piccole realtà locali, come Montebello, il Partito Fascista istituì la Casa del Fascio, un luogo che rappresentava il centro operativo del regime nella comunità. Questo edificio non era solo la sede del partito, ma anche un vero e proprio spazio di educazione e addestramento per la gioventù. A Montebello, il regime scelse un elegante edificio in via Marconi, ora noto come Villa Zonin, acquistato dall’amministrazione comunale e trasformato in una scuola di cultura fascista e in un luogo di esercitazioni premilitari.
Qui, il segretario del partito fascista locale era responsabile delle varie organizzazioni, gestendo gruppi di giovani suddivisi per età e sesso, come i Balilla, le Piccole Italiane e gli Avanguardisti. Ogni sabato pomeriggio, le giovani reclute dovevano presentarsi nella Casa del Fascio per seguire un rigido programma di formazione: imparavano a marciare secondo il passo romano, maneggiavano armi come il moschetto e si impegnavano in intense attività sportive, tutte finalizzate a sviluppare forza fisica e disciplina militare. Il sabato fascista era un rituale immancabile, che scandiva il tempo della settimana e il senso di appartenenza al partito.
Ma la Casa del Fascio non era solo un luogo di rigida disciplina. Il regime sapeva bene che per coinvolgere la gioventù, oltre all’indottrinamento, era necessario offrire momenti di svago. Per questo, questi edifici diventavano anche centri di intrattenimento, con gare sportive, partite di calcio, spettacoli e serate danzanti. I giovani di Montebello non solo venivano educati ai valori fascisti, ma trovavano anche opportunità di socializzazione e divertimento, sempre però sotto lo sguardo vigile del partito.
Mentre il regime cercava di monopolizzare l’educazione e la formazione della gioventù, la Chiesa cattolica rappresentava un’importante forza alternativa. Gli oratori, sparsi per tutto il territorio italiano, costituivano un punto di riferimento per la gioventù e proponevano un’educazione fondata su valori religiosi e morali, in netta contrapposizione con l’etica violenta e militarista promossa dal fascismo. Tra le associazioni cattoliche più diffuse c’erano gli Esploratori, un gruppo che si ispirava al movimento scout, e che il fascismo percepiva come una minaccia, considerandolo un’organizzazione paramilitare al di fuori del controllo statale.
La tensione tra fascismo e Chiesa culminò nel 1931, quando il regime emanò un ordine per sciogliere tutte le associazioni cattoliche giovanili. Questo decreto rappresentò un attacco diretto all’autorità della Chiesa in un ambito, quello educativo, che essa aveva tradizionalmente gestito con grande influenza. In diverse città e paesi italiani, tra cui Montebello, bande di fascisti fecero irruzione nelle sedi dei Circoli Cattolici, sequestrando libri, registri e oggetti religiosi. In alcuni casi, vennero perfino profanati ritratti di santi e simboli sacri, alimentando una profonda indignazione tra la popolazione.
L’episodio di Montebello è emblematico della violenza e del controllo che il fascismo cercava di esercitare anche nelle piccole comunità. Il 9 maggio 1931, un vicecommissario della pubblica sicurezza, accompagnato da militi fascisti e carabinieri, fece irruzione nella sede dell’Oratorio parrocchiale. Qui dichiarò sciolti i circoli giovanili cattolici, sequestrò tutta la documentazione e asportò ogni mobile presente, sigillando le sale dell’oratorio, compresa la cappellina. Questo gesto, brutale e intimidatorio, era volto a dimostrare la superiorità del regime e a mettere fine a qualsiasi forma di opposizione, anche se nascosta dietro l’apparente neutralità della fede religiosa.
Nonostante la repressione, il Partito Fascista capì ben presto di aver commesso un errore strategico. Il conflitto con la Chiesa cattolica rischiava di alienare una parte importante della popolazione, profondamente legata alla religione. La Chiesa, infatti, non era solo un’istituzione spirituale, ma anche un potente attore sociale, con un’influenza capillare in tutto il paese. La reazione del Vaticano e delle comunità cattoliche fu dura e decisa, e Mussolini, pragmatico come sempre, si rese conto che non poteva permettersi un conflitto aperto con la Chiesa.
Così, nel settembre dello stesso anno, il regime fascista fece marcia indietro: venne autorizzato il ripristino delle associazioni giovanili cattoliche, una concessione necessaria per evitare uno scontro più profondo con il Vaticano. Questo episodio segnò un momento di tregua tra il fascismo e la Chiesa cattolica, che sarebbe stato formalizzato qualche anno più tardi con la firma dei Patti Lateranensi del 1929. Questi accordi riconoscevano ufficialmente il cattolicesimo come religione di Stato e garantivano alla Chiesa una significativa autonomia, mettendo fine a un lungo periodo di tensioni tra Stato e Chiesa in Italia.
Il tentativo del fascismo di controllare l’educazione della gioventù italiana ebbe un impatto profondo. Le Case del Fascio, come quella di Montebello, divennero simboli del potere totalitario, spazi dove i giovani venivano plasmati fisicamente e ideologicamente per servire il regime. Tuttavia, la rivalità con la Chiesa cattolica dimostrò che non era possibile controllare completamente la mente e il cuore degli italiani, soprattutto nelle comunità più radicate nella tradizione religiosa.
Il fascismo, pur potente e aggressivo, dovette fare i conti con una resistenza silenziosa che si esprimeva nelle famiglie e nelle parrocchie. La fede cattolica, con i suoi valori morali e la sua influenza, rappresentò una forma di opposizione morale al progetto totalitario del regime, un’opposizione che, nonostante le repressioni, riuscì a sopravvivere e a mantenere viva una diversa idea di comunità e di educazione.

Umberto Ravagnani

FOTO: La casa del fascio a Montebello Vicentino (foto Umberto Ravagnani).
NOTA: Si tratta di un edificio con la caratteristica tipica della villa padronale, costruita tra Ottocento e primo Novecento.
BIBLIOGRAFIA: R.Schiavo, “Montebello Vicentino – Storia e Arte“, Publigrafica Editrice, 1992.
A.Maggio – L.Mistrorigo, “Montebello Novecento“, 1997.

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RINUNCIA ALLA CITTADINANZA

[412] LA RINUNCIA ALLA CITTADINANZA

Nel giugno del 1891, il prevosto di Montebello, don Giuseppe Capovin, fu convocato dall’Ufficiale di Anagrafe nelle stanze del Comune per delle importanti comunicazioni. In quella sede urgeva infatti il suo aiuto di esperto studioso per confermare la correttezza della traduzione di un documento redatto in lingua latina spedito al Sindaco dal governo ungherese.
Perché proprio in latino? Per la ragione che la quel tempo, come tutt’oggi del resto, la lingua ungherese era poco conosciuta in Italia al pari dell’italiano in terra magiara. Pertanto le autorità ungheresi si avvalsero dell’ausilio di un traduttore presente nel loro Ministero degli Interni di Budapest, tale Alexander Popovic che evidentemente conosceva il latino, lingua certamente non più usata nei documenti civili, come un tempo, ma ancora ben utilizzata nell’ambito religioso.
Non era pertanto un antico carteggio, come pensava il prevosto Capovin, ma una semplice richiesta redatta proprio quell’anno dal governo ungherese che invitava il Comune a voler prender nota della rinuncia alla cittadinanza italiana di tale Ernesto Tirapelle del fu Giulio con residenza montebellana.
Da qualche anno, Ernesto Tirapelle si trovava in territorio austro-ungarico a Fiume (Rijeka) al servizio di un alto ufficiale magiaro e qui nel 1889 aveva espresso l’intenzione di ottenere la stessa cittadinanza del padrone. Essendo nato nel 1850 a Terrossa di Roncà, aveva quindi 16 anni quando gli austriaci lasciarono l’Italia riunita e governata dalla casa Savoia. È probabile che a Montebello, suo nuovo domicilio, avesse avuto modo di conoscere qualche futuro suo concittadino ungherese.
Dai documenti che Ernesto Tirapelle dovette produrre si apprende che, ancora nel dicembre 1886, aveva dovuto rinnovare od ottenere un nuovo passaporto italiano. Pochi anni prima si era sposato, forse nel 1879, sicuramente non a Montebello, poiché i registri anagrafici non contemplano né il suo nome né la nascita dei suoi tre figli. Dai dati riportati nel citato passaporto si sa che la moglie Maria Raisel era nata nel 1848 e che gli aveva dato tre figli: Olga-Milka nel 1881, Zlata-Margherita nel 1882 ed infine Antonio nel 1885.
I nomi soprassegnati, eccetto Antonio, sono di chiara origine slava, se non ungherese, e fanno supporre che il matrimonio e le nascite dei figli siano avvenuti nella città istriana-croata.
Fu così che Ernesto Tirapelle, la moglie e i figli entrarono nel novero dei cittadini del “Regno Ungarico”.
In quel periodo non era stato l’unico montebellano ad aver cercato fortuna nelle bellissime località della costa istriana e croata (fino al 1914 la comunità italiana, per lo più veneta e friulana, che emigrò in Istria raggiunse il numero di 50.000). Nel 1893 arrivò al Comune di Montebello una tardiva comunicazione, sempre in latino, proveniente dal distretto di Rovigno, allora Diocesi di Parenzo e del Litorale di Pola (il Litorale si estendeva dalla valle del fiume Isonzo a nord fino alla penisola istriana, a sud con le città di Trieste, Gorizia e Pola. Il nome Litorale della regione fu sostituito ben presto dalla nuova denominazione Friuli Venezia-Giulia. Invece La città di Fiume, seppure confinante con la penisola istriana, apparteneva alla Croazia ungherese ( n.d.r.).
Con questa missiva il prevosto nonché parroco di Rovigno, don Luigi Madolin, informò l’Anagrafe montebellana, rigorosamente in latino, seppur tardivamente, che il 4 gennaio 1886 nella casa al numero 550 era deceduta per crisi cardiaca, munita dei S.S. sacramenti, Guerrina moglie di Antonio D’Andrea del fu Cipriano, operaio di 26 anni, domiciliato a Montebello. Le esequie furono celebrate nel duomo di sant’Eufemia il giorno dell’Epifania dal citato prevosto don Luigi Madolin.
Anche della famiglia D’Andrea non ci sono documenti che comprovino la sua residenza a Montebello che deve essere stata breve e forse l’ultima, in ordine di tempo, prima di emigrare verso l’Istria.
Un’altra famiglia montebellana, residente a Pola in quel tempo, era quella di Pietro Perin che evidentemente aveva tutta l’intenzione di ritornare in patria dal momento che nel 1883 volle comunicare all’anagrafe del suo paese di origine la nascita del figlio Giovanni Matteo avvenuta nel 1880 (anche le morti venivano notificate per lo stesso motivo). La madre del bambino era Francisca Brunich da Pisino (Istria) che Pietro Perin deve aver sposato non appena emigrato in quella terra. Anche tutti questi dati riportati nella lettera furono stilati in latino e poi tradotti.
Proprio nel paese di Pisino venne alla luce, nel 1881, Federico Tessari, figlio del montebellano Francesco e di Giuseppina Francovich. Il cognome della madre ne rivela, senza ombra di dubbio, l’origine istriana o croata. Due anni prima, a Pola, Giuseppina Francovich aveva dato alla luce un altro maschietto battezzato con il nome Lino. Un terzo bambino, Natale, venuto al mondo nel 1883, scomparve giovanissimo.
Ma quali prospettive di lavoro poteva offrire l’Istria in quel periodo di bibliche emigrazioni, considerato che nella parte interna della penisola veniva esercitata un’agricoltura di sussistenza e che in quella costiera si viveva di pesca e di piccoli commerci marittimi? Praticamente nessuna.
Pola invece, rappresentava una parte a sé stante per la presenza della principale base della marina austriaca, sia militare che civile, con le potenzialità occupazionali legate alla presenza di molti soldati, della flotta, dell’arsenale con i suoi impianti meccanici e cantieristici e l’edilizia in grande sviluppo.
Così la facilità sia burocratica che pratica di accesso a questo territorio da parte degli emigranti ne costituì una meta ambita per alcuni, facendola preferire alle più ricche terre delle Americhe e ad altri stati europei. (a questo proposito basta leggere la conclusione in grassetto dell’articolo per capire quanto, a volte, fosse difficile recarsi all’estero).

Ottorino Gianesato

Le condizioni e le AVVERTENZE per emigrare nei vari stati scritte a stampa in un documento di fine ottocento e ristampato e modificato nel 1902, per quel che riguardava gli Stati Uniti d’America, erano categoriche:

  gli italiani che emigrano agli Stati Uniti dell’America del Nord sono avvertiti che, per le leggi vigenti nell’Unione è vietato lo sbarco ai delinquenti, mentecatti, idioti, indigenti, agli individui affetti da mali ributtanti o contagiosi, nonché a coloro che si rechino a lavorare negli Stati Uniti in forza di contratto stipulato all’estero. Qualora un immigrante così vincolato riesca a sbarcare e, nel termine di un anno sia scoperto e convinto di aver contravvenuto alla legge, è soggetto ad espulsione dal territorio della Repubblica. Le spese del di lui viaggio di ritorno sono poste a carico del proprietario della nave che lo trasportò”.

Umberto Ravagnani

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PADRE GIORGIO M. ZEINI

[411] PADRE GIORGIO M. ZEINI
Un pellegrino della Fede

Padre Giorgio Maria Zeini, un frate paziente e ricettivo, servo di Maria e sacerdote dedicato, ha concluso il suo pellegrinaggio terreno martedì 6 giugno 2023, alle ore 10:10, nella comunità di accoglienza e cura dell’Istituto Missioni a Vicenza. Dopo una lunga agonia, accompagnato dai fratelli e dagli operatori, la leucemia acuta ha messo fine alla sua vita. In quel momento, i fratelli stavano celebrando la liturgia delle lodi. Aveva 73 anni di vita, di cui 55 come frate e 46 come sacerdote.
Frate Giorgio nacque a Montebello Vicentino il 28 settembre 1949. Fu battezzato dal Sac. Giuseppe Stella nella chiesa parrocchiale del paese il 9 ottobre seguente. Cresciuto in una famiglia umile, composta dal padre Silvio, contadino, e dalla madre Teresa Prando, casalinga, insieme a due fratelli, vivevano a Montebello Vicentino in Contrada Ca’ Sordis N. 16. All’età di sedici anni, Giorgio fu accolto tra i Servi di Maria nel seminario minore di Follina (TV). Durante lo scrutinio per il noviziato, scrisse di aver deciso di diventare religioso a undici anni, sentendo una particolare attrattiva, e di aver scelto i Servi di Maria perché era l’ordine che conosceva di più e di cui conosceva alcuni religiosi. Dopo il probandato tra Follina e Isola Vicentina, venne ammesso al noviziato con una dichiarazione del maestro di formazione, fra Celio M. Marchesan, che lo descriveva come di indole buona, serena e generosa, preparato ad assumersi i doveri della vita comune, con una buona pietà verso Dio e la Vergine Santissima, e dotato di discreta intelligenza e buona volontà. Trascorse il noviziato a Rovato (BS), concludendolo con la professione semplice il 15 settembre 1966, e confermò il proprio impegno con la professione solenne a Roma il 1° giugno 1974. Ricevette il sacramento del presbiterato nel santuario di Monte Berico (Vicenza) l’11 aprile 1977, durante un rito presieduto dal vescovo diocesano Arnoldo Onisto.
Durante il suo cammino, Giorgio si descrisse con queste parole, prima della professione solenne: “Cari fratelli nella fede, dopo aver riflettuto a lungo sulla serietà dell’impegno che sto per assumermi di fronte a Voi e alla Chiesa e aver pregato per essere illuminato su quanto sto per fare, Vi chiedo di ammettermi alla professione solenne perché io possa partecipare più pienamente alla vita dell’Ordine e vivere con pienezza la comunione e la carità con quanti sarò chiamato a vivere e raggiungere così la mia verità e libertà. Nel formulare questa richiesta, ritengo di essere libero e vero con me stesso. Sono inoltre cosciente del fatto che se vissuta in modo autentico la vita religiosa esige notevole impegno da parte mia, tuttavia sono anche convinto che la grazia di Dio e il fraterno aiuto dei fratelli verranno incontro alla mia fragilità e mi daranno la forza per essere fedele alla chiamata che avverto dentro di me” (Vicenza 26 aprile 1974). Visse nelle comunità di Milano/San Siro (1976-1978), Trieste (1978-1981; 1982-1985), Udine (1981-1982), Madonna di Tirano (1985-1990), Milano/San Carlo (1990-1991; 1993-1994; 2009-2012), Venezia/Sant’Elena (1991-1993; 1994-1996; 2006-2009), Pietralba (2012-2022), da dove si prodigava in servizio pastorale a Innsbruck (Austria). Nelle varie comunità, Padre Giorgio servì come parroco, priore e insegnante. Durante la sua vita religiosa, dimostrò un impegno costante e una dedizione straordinaria, sempre pronto ad affrontare le sfide e le necessità delle comunità in cui veniva inviato. Era noto per il suo canto affascinante e preciso, tanto che a Pietralba era affettuosamente chiamato “padre Pavarotti”.
Frate Giorgio era anche un lettore appassionato, sempre aggiornato sugli avvenimenti più importanti, sia a livello locale che internazionale. Amava profondamente l’Ordine dei Servi di Maria e indicava Maria, madre di Dio e madre nostra, come patrona e protettrice dell’ordine. Con l’aggravarsi della salute, già compromessa da varie patologie, il 14 maggio 2022 si trasferì nella comunità dell’Istituto Missioni di Vicenza. La leucemia gli era stata diagnosticata circa due anni e mezzo prima, e affrontò la malattia con fede e fiducia. Nonostante le cure e l’attenzione ricevute, la sua salute continuò a deteriorarsi, e trascorse gli ultimi giorni della sua vita a letto, sempre più silenzioso.
Il rito funebre si tenne venerdì 9 giugno, alle ore 11:00, nella basilica di Monte Berico, gremita di familiari, conoscenti e pellegrini. Il priore provinciale, fra Giuseppe M. Corradi, presiedette la cerimonia, accompagnato da 26 concelebranti. Durante l’omelia, fra Corradi ricordò l’amicizia e la dedizione di Padre Giorgio, elogiando il suo spirito di servizio e la sua profonda fede. Il priore condivise aneddoti personali e riflessioni toccanti, sottolineando come Giorgio fosse sempre pronto a rispondere alle necessità dell’Ordine, spesso anticipando le richieste del provinciale.
« Verso la fine della settimana scorsa sono andato a trovare p. Giorgio e l’ho salutato con gioia e lui ha risposto con serenità al mio saluto. Nel mio cuore io mi dissi: Non morire durante la mia assenza; se comunque il Signore ti chiamerà proprio in questo tempo sappi che io tornerò a casa subito perché desidero essere io a presiedere la santa messa delle tue esequie … Fra Giorgio è stato più volte priore di comunità e più volte parroco. Ho elencato i vari nostri conventi e parrocchie in cui p. Giorgio è stato perché aveva un carisma (dono) particolare. Quando sentiva che c’erano difficoltà in un convento o parrocchia prima ancora che il provinciale gli chiedesse di spostarsi là lui chiedeva di andarci. La sua era una obbedienza già pronta prima ancora che gli venisse chiesta. Io una volta gli chiesi: Giorgio come mai cambi tanti conventi? Lui amichevolmente rispose che andava volentieri dove lui vedeva la necessità della sua presenza prima ancora che il provinciale glielo chiedesse. P. Giorgio è stato sempre un ricercato confessore e un predicatore di eccellenza. Eccelleva ancor di più nel canto. A Pietralba il popolo diceva: andiamo alla messa del padre Pavarotti. Il suo canto – oltre ad essere estremamente preciso – era anche affascinante insomma coinvolgeva i fedeli. P. Giorgio era un lettore accanito e si teneva sempre aggiornato su tutto. Anche ad Innsbruck dove lui è stato varie volte per qualche mese per aiutare i confratelli Servi di Maria bastava chiedere a p. Giorgio quali fossero gli avvenimenti più importanti del momento e lui rispondeva sempre con precisione sia che si trattasse di avvenimenti austriaci o italiani sia che si trattasse di avvenimenti del mondo. P. Giorgio amava l’Ordine e tutti i suoi frati ed indicava loro la patrona e protettrice dell’ordine Maria madre di Dio e madre nostra. Per questo noi possiamo dire grazie a p. Giorgio per essere stato a lungo con noi possiamo dire grazie al Signore che ce lo ha dato e possiamo dire grazie a Maria perché lo ha sempre sostenuto e protetto. AMEN ».
Accompagnato dal priore della sua comunità, Padre Giorgio Zeini è stato sepolto nella tomba dei Servi di Maria nel cimitero di Vicenza. La sua eredità di fede, servizio e amore per l’Ordine dei Servi di Maria rimarrà sempre viva nei cuori di coloro che lo conobbero e amarono. Le testimonianze e i saluti dei confratelli e degli amici non si fecero attendere. Francesco Rigobello di Follina ricordò: “Ricordo e ringrazio il fratello e amico Giorgio, uomo deciso, dedito allo studio e a tanta lettura di vari autori, paziente e mite fin dagli anni passati insieme a San Carlo di Milano, quando già seguiva terapie per problemi allora al cuore”. Antonio Santini aggiunse: “Ringrazio il Signore per tutto il BENE che egli ha seminato nelle realtà in cui visse e per le tante amicizie insieme maturate e condivise. Porto il saluto di questi amici comuni, soprattutto della Valtellina e di Trieste, ed un vivo ringraziamento ai confratelli, soprattutto il priore ed il personale di servizio dell’Istituto Missioni per come l’hanno accolto e accompagnato con amore nell’ultimo periodo della sua vita tra noi”.
In conclusione, la vita di Padre Giorgio M. Zeini rappresenta un esempio luminoso di dedizione, fede e amore per l’umanità. Il suo pellegrinaggio terreno è terminato, ma il suo spirito e il suo insegnamento continuano a vivere attraverso coloro che hanno avuto il privilegio di conoscerlo e trarre ispirazione dalla sua vita.

Umberto Ravagnani

FOTO: Archivio storico della Provincia Veneta OSM (Vicenza) (email: archivio@pvosm.it).
FONTE: Necrologio di P. Giorgio M. Zeini, conservato nel fascicolo personale in Archivio storico della Provincia Veneta OSM (Vicenza) (email: archivio@pvosm.it).

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IL MAESTRO GIOVANNI GOBBO

[410] IL MAESTRO GIOVANNI GOBBO
Un esempio di dedizione e impegno nella scuola del dopoguerra

Nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, l’Italia affrontava una fase di ricostruzione sociale ed economica profonda. In questo contesto, il sistema scolastico rivestiva un ruolo centrale, e tra i tanti insegnanti che hanno lasciato un’impronta indelebile c’è Giovanni Gobbo, un maestro che ha dedicato la sua vita all’educazione dei giovani nel piccolo paese di Montebello. Attraverso la sua “Cronaca di vita della scuola”, Gobbo ha tracciato un quadro prezioso delle sfide quotidiane che caratterizzavano il mestiere di insegnante in un’Italia ferita ma piena di speranza.
Quando Giovanni Gobbo iniziò ad insegnare nel 1946, l’Italia si stava rialzando dalle macerie della guerra. Le scuole, soprattutto nelle aree rurali, erano spesso in condizioni precarie: edifici danneggiati, aule sovraffollate e una scarsità cronica di materiali scolastici erano la norma. Nonostante queste difficoltà, l’istruzione rappresentava un pilastro fondamentale per la rinascita del Paese.
Egli si trovò a insegnare in questo periodo storico cruciale, in cui la scuola non era solo un luogo di istruzione, ma anche uno spazio in cui si coltivavano i valori civici e morali di una nuova democrazia. La sua carriera, che si sviluppò tra il 1946 e il 1959, riflette le sfide e le opportunità di quegli anni.
La sua “Cronaca di vita della scuola”, relativa all’anno scolastico 1947-48, offre una finestra unica sul suo approccio all’insegnamento. Nella classe IV maschile che gli venne assegnata, composta da 40 alunni di età compresa tra gli 8 e i 14 anni, Gobbo si trovò di fronte a una grande sfida: una classe eterogenea, sia per età che per competenze. Molti studenti mostravano enormi difficoltà nella lingua italiana, con una lettura “spaventosa” e una scarsa capacità di comporre un pensiero, sia oralmente che per iscritto.
Si dedicò a colmare queste lacune con un lavoro intenso e mirato. Nel primo mese di scuola, concentrò i suoi sforzi sull’ortografia e sulla comprensione della lingua italiana, consapevole che senza una base solida in questo ambito, sarebbe stato difficile per gli alunni progredire nelle altre materie. Tuttavia, si rese conto che la scuola da sola non poteva farcela: era essenziale il coinvolgimento delle famiglie, e per questo esortò i genitori a seguire con attenzione il percorso scolastico dei loro figli, cercando di creare un ponte tra scuola e casa.
Uno degli aspetti più significativi dell’insegnamento di Giovanni Gobbo era la sua attenzione all’educazione morale dei ragazzi. In una fase di ricostruzione nazionale, il ruolo dell’insegnante andava oltre l’insegnamento delle discipline scolastiche. La scuola, come scriveva nel suo diario scolastico, aveva anche il compito di “educare, ma educare soprattutto con l’esempio vigile e costante”. Questo impegno verso la formazione morale era visto come parte integrante della missione educativa, soprattutto in un’Italia che cercava di riannodare i fili del tessuto sociale.
La disciplina e il rispetto erano componenti centrali dell’insegnamento di Gobbo. Nonostante i ragazzi provenissero da contesti spesso difficili e privi di risorse, il maestro riusciva a instillare in loro un forte senso del dovere e della responsabilità. In un contesto di comunità rurale come Montebello, dove molti ragazzi partecipavano attivamente ai lavori nei campi, la scuola diventava un luogo in cui imparare non solo nozioni, ma anche valori civici e sociali fondamentali.
Nel corso dell’anno scolastico, osservò con attenzione i progressi dei suoi alunni. Nella cronaca del dicembre 1947, esprime soddisfazione per i primi risultati positivi: gli alunni avevano acquisito una maggiore sicurezza nell’uso dei verbi ausiliari e cominciavano a svolgere riassunti orali e scritti con maggiore autonomia. Tuttavia, il cammino era ancora lungo, e il maestro non si illudeva che i miglioramenti fossero definitivi. Continuava a sottolineare l’importanza di una pratica costante e di un impegno quotidiano per consolidare i progressi fatti.
In campo scientifico, gli alunni mostravano un particolare interesse per l’aritmetica e la geometria, materie in cui Gobbo riusciva a ottenere risultati soddisfacenti. Egli verificava attentamente che ogni studente fosse in grado di eseguire le quattro operazioni fondamentali con i numeri interi e decimali, e si assicurava che tutti avessero una comprensione solida delle misure del sistema metrico.
Più complicato era l’insegnamento della storia e della geografia, materie che gli alunni trovavano meno attraenti. Il periodo medioevale, in particolare, risultava difficile da comprendere e da memorizzare, anche perché non tutti gli studenti possedevano i libri di testo nella stessa edizione, creando ulteriori difficoltà nel seguire le lezioni.
Oltre all’insegnamento in aula, Giovanni Gobbo partecipava attivamente alla vita della comunità di Montebello. La scuola non era vista come un’entità separata, ma come parte integrante del tessuto sociale del paese. Insieme agli altri insegnanti e al Patronato scolastico, si impegnava per garantire che anche gli alunni più poveri potessero accedere all’istruzione. Nel novembre 1947, ad esempio, venne discussa l’idea di istituire un economato scolastico per fornire materiali didattici a prezzi accessibili alle famiglie meno abbienti.
Le celebrazioni civiche e religiose erano un altro aspetto importante della vita scolastica. Nel corso dell’anno, gli alunni partecipavano a cerimonie locali, come l’omaggio al monumento ai caduti o la commemorazione della battaglia di Sorio. In queste occasioni, la scuola assumeva un ruolo di primo piano nella formazione del senso di appartenenza e di identità nazionale, valori cruciali in un periodo in cui l’Italia stava cercando di costruire una nuova coscienza civile.
La dedizione di Giovanni Gobbo emerge chiaramente dalle pagine della sua cronaca. Anno dopo anno, egli continuava a lavorare senza risparmiarsi, consapevole dell’importanza del suo ruolo nel plasmare il futuro dei suoi alunni. Nel giugno 1948, al termine di un altro anno scolastico, scrive con orgoglio: “Concludo così un nuovo anno scolastico con piena coscienza di aver lavorato senza risparmio di tempo e di fatica”. Queste parole riflettono non solo il suo impegno personale, ma anche la convinzione che l’insegnamento fosse una missione che richiedeva dedizione totale.
Nonostante le difficoltà materiali, le sfide sociali e la mancanza di risorse, riusciva a creare un ambiente scolastico accogliente e stimolante. Gli alunni, anche quelli meno motivati, seguivano volentieri le sue lezioni, riconoscendo in lui una figura di riferimento e di guida.
L’eredità di Giovanni Gobbo si inserisce nel contesto più ampio della scuola elementare italiana del dopoguerra. In un periodo caratterizzato da profonde trasformazioni sociali ed economiche, la figura dell’insegnante assumeva un ruolo centrale nella formazione delle nuove generazioni. Gobbo non si limitava a trasmettere conoscenze: il suo insegnamento abbracciava l’intera persona, mirando a formare individui responsabili e consapevoli del proprio ruolo nella società.
Attraverso la sua “Cronaca di vita della scuola”, possiamo cogliere non solo le sfide affrontate quotidianamente, ma anche l’entusiasmo e la passione che caratterizzavano il suo lavoro. La sua attenzione verso ogni singolo alunno, il suo impegno costante per migliorare le condizioni della scuola e la sua capacità di coinvolgere la comunità locale sono tutti aspetti che rendono la sua figura un modello di dedizione e professionalità.
L’insegnamento di Giovanni Gobbo ci ricorda l’importanza del ruolo degli educatori nella costruzione di una società migliore. Il suo esempio continua a vivere non solo nelle pagine delle sue cronache, ma anche nelle vite degli studenti che ha contribuito a formare, lasciando un’impronta duratura nella storia della scuola italiana.

Umberto Ravagnani

FOTO: Il maestro Giovanni Gobbo ha insegnato a Montebello Vicentino dal 1946 al 1959.
BIBLIOGRAFIA: O. Gianesato, U. Ravagnani e M. E. Dalla Gassa, LA VECCHIA SCUOLA ELEMENTARE DI MONTEBELLO VICENTINO, Amici di Montebello, 2018, Montebello Vicentino.

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IL MORBO ASIATICO

[409] IL MORBO ASIATICO

Con una ordinanza del 10 agosto 1886 il sindaco di Montebello Vicentino, Luigi Baldisserotto, stabilì:
Per misure precauzionali si ordina che la tumulazione venga eseguita alle ore 2 antimeridiane di domani 11 agosto senza seguito e per la via argine del Chiampo”.
Praticamente per evitare di percorrere il centro del paese.
Il primo cittadino, a malincuore, fu costretto a predisporre queste linee guida per la sepoltura di Domenica Pajusco di anni 66, deceduta a causa del colera, abitante al civico numero 528. (i numeri civici oltre il 500 contrassegnavano le abitazioni situate nel Borgo, contrà Ronchi, Vanzo, Gambero, cà Sordis, Frigon, ossia principalmente in quelle alla sinistra del torrente Chiampo).
Tra l’altro un’altra ordinanza in vigore in tutti comuni sanciva: “il cadavere dovrà essere deposto in cassa intonacata di pece e sotterrato senza cerimonia religiosa dopo 12 ore”. Pertanto per evitare il propagarsi del contagio gli sfortunati che erano stati vittime del morbo lasciavano in piena notte questo mondo senza il minimo conforto umano.
Il 1886, soprattutto per l’ovest vicentino, fu un vero “annus horribilis. Dopo esattamente cinquant’anni si ripresentava il colera meglio conosciuto come morbo asiatico. Fino ai primi decenni dell’ottocento questa terribile malattia era pressoché sconosciuta e inesistente in Europa, finché gli inglesi, in seguito alla conquista dell’India, nel 1835 portarono in patria ingenti ricchezze, ma purtroppo anche le miserie rappresentate dal contagioso morbo che si diffuse rapidamente nel Vecchio Continente. Nel corso dell’ottocento, oltre all’epidemia del 1835-36, il morbo del colera imperversò nel Veneto nel 1855, nel 1886-1887. Ma quello del quale si parlerà diffusamente più avanti, si verificò nel 1886 ed ebbe, come si leggerà, implicazioni economiche e sociali vastissime.
Lo storico Bruno Munaretto ci informa che nella prima grande e mortifera epidemia del 1836, a Montebello i decessi furono più di cento sparsi nel territorio comunale. Nella vicina Montecchio Maggiore furono più di 130, concentrati nella parrocchia di San Pietro e cioè Fontana di Ferro, via Madonnetta, via Verzellina e altre.
Il periodo più letale dell’anno fu quello compreso tra la fine di giugno e i primi giorni di settembre, circa 70 giorni, arco di tempo in cui imperversavano anche altre gravi malattie come il tifo ed il vaiolo, complici la penuria, se non la totale mancanza di acqua potabile nei pozzi, e le precarie condizioni igieniche.
Prendendo in considerazione le situazioni dei comuni di Montebello, Brendola e Montecchio Maggiore ed a seguire anche di Lonigo, si legge che il primo decesso del 1886 si verificò a Montecchio il 27 giugno nella frazione collinare di san Urbano, e in seguito l’epidemia si propagò nelle vicine località Bernuffi, Valbona, Bastia, Rio Secco. In altura quindi, a differenza del contagio del 1836 che colpì principalmente la parte pianeggiante a sud del comune ai piedi della collina dei castelli.
Scendendo da sant’Urbano la malattia si propagò in seguito nelle contrade della Valle, a san Vitale, e poi fino al centro del paese mietendo in totale 87 vittime.
A Montebello, le colline di Agugliana e Selva, a differenza di quelle di Montecchio, furono miracolosamente risparmiate dalla grave malattia, molto presente tuttavia nelle zone esterne al centro storico.
Unica vittima di Agugliana accertata, fu tale Domenico Dibello, settantaduenne celibe, di condizione mendicante che forse si era contagiato proprio durante il suo girovagare per elemosinare un pezzo di pane. Comunque a Montebello si ebbe la prima morte di colera solo il 13 luglio, e cioè quella di Domenico Gabinato di 56 anni abitante nelle campagne presso la ferrovia. Alla fine del contagio Montebello contò oltre 30 decessi, molti meno di quelli del 1836, forse grazie anche alle precauzioni e alle misure messe in atto. Non andò altrettanto bene alla vicina Brendola che, pur contando solo mille abitanti meno di Montebello, alla fine pianse la scomparsa di ben 97 paesani, il primo l’8 luglio. Comunque i casi mortali di colera furono ovunque senz’altro maggiori poiché alcune cause di decesso, diverse dal colera segnate nei verbali dai medici del comune, erano però riconducibili a questo morbo.
Nell’intera provincia di Vicenza le perdite causate dal colera sfiorarono le 2000 unità (991 uomini e 937 donne) pari al 46% dei colpiti. Vicenza città contribuì a queste tristi cifre con 343 vittime su una popolazione di circa 39.000 abitanti. Di Lonigo mancano i verbali di morte e pertanto risulta complicato stilare delle cifre. Incrociando i dati degli indici decennali nel 1886, Lonigo risulta avere avuto almeno 150 decessi in più rispetto alla media del periodo 1881-1891 che dovrebbero essere attribuiti al morbo in questione. Questi su una popolazione che sfiorava i 10.000 abitanti.
Appare perciò evidente che lungo l’asse Vicenza – Lonigo il colera imperversò più che in altri comuni del vicentino. I popolosi paese di Thiene e Dueville, per esempio, ebbero complessivamente “solo” 18 casi letali.
Ma quel che è peggio l’epidemia di colera del 1886, infierendo soprattutto sui ceti più poveri dei contadini e degli operai, non fece altro che aggravare la situazione migratoria di tutto il Veneto.
Nei due anni successivi si registrò il massimo storico dell’emigrazione dell’ottocento: da Vicenza 11266 persone emigrarono definitivamente, principalmente verso l’America del Sud, e 5876 temporaneamente.

Ottorino Gianesato

NOTA: Durante l’epidemia di colera del 1886, Venezia divenne teatro di un esperimento medico rivoluzionario: l’ipodermoclisi. Proposta dal dottor Arnaldo Cantani nel 1865, questa tecnica mirava a salvare vite iniettando soluzioni saline direttamente sotto la pelle per contrastare la disidratazione fulminante e l’acidità del sangue nei malati di colera. I medici veneziani si affrettarono a perfezionare il metodo, applicandolo ai pazienti in stadio avanzato. In poco tempo, l’epidemia fu sotto controllo. I risultati furono sorprendenti: nonostante la gravità delle condizioni, molti pazienti critici sopravvissero grazie a questa innovativa terapia. L’ipodermoclisi aprì la strada a nuove possibilità nel trattamento delle emergenze mediche.
IMMAGINE: Il medico italiano Arnaldo Cantani che propose per primo una cura contro il morbo asiatico (da Wikipedia).

Umberto Ravagnani

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MARIA DE GIACOMI

[408] LA MAESTRA MARIA DE GIACOMI
Un’insegnante tra storia e vita quotidiana

Dal diario di un’insegnante nel cuore dell’Italia rurale, tra il fascismo, la guerra e la ricostruzione.
Tra le righe del diario di Maria De Giacomi, emerge un quadro vivido della vita scolastica in Italia, in un’epoca di profonde trasformazioni storiche e sociali. Insegnante nelle scuole elementari di Selva di Montebello tra il 1930 e il 1948, Maria si dedicò con passione e determinazione alla formazione dei giovani in un periodo in cui il Paese attraversava grandi sfide. La sua storia non è solo quella di una maestra, ma anche quella di una donna che ha vissuto in prima linea i cambiamenti dell’Italia, dalle restrizioni del regime fascista alle difficoltà della Seconda Guerra Mondiale e alla rinascita del dopoguerra.
Quando Maria De Giacomi iniziò il suo percorso di insegnamento, l’Italia era governata dal regime fascista, che considerava l’istruzione uno strumento cruciale per inculcare nei giovani i valori di disciplina, obbedienza e patriottismo. La scuola elementare rappresentava il primo luogo di formazione civica per i bambini, dove venivano educati secondo i principi della retorica fascista. Tuttavia, come emerge dal diario di Maria, il suo approccio all’educazione era più umano e orientato al benessere e alla crescita morale degli alunni, oltre che al rispetto delle direttive statali.
Nel diario, datato 4 ottobre 1947, Maria riporta un incontro con il Direttore scolastico, durante il quale si sottolineava l’importanza della disciplina e della puntualità. Il fascismo poneva un’enfasi particolare su questi aspetti, ma Maria, pur rispettando le indicazioni ricevute, dimostrava una dedizione personale che andava oltre le mere istruzioni ufficiali. Era evidente che il suo obiettivo non era solo quello di formare alunni disciplinati, ma di aiutarli a diventare individui consapevoli e rispettosi, capaci di affrontare le sfide della vita.
La Seconda Guerra Mondiale fu un periodo estremamente difficile per il sistema scolastico italiano. Le scuole elementari furono colpite dalla mancanza di risorse, dalle frequenti interruzioni delle lezioni e dall’incertezza della vita quotidiana. Tuttavia, nonostante le difficoltà, Maria De Giacomi continuò con determinazione il suo lavoro, cercando di garantire ai suoi alunni un’educazione stabile in un periodo di caos.
Il 6 ottobre 1947, Maria descrive l’inizio del nuovo anno scolastico con una cerimonia semplice, che comprendeva una messa e un omaggio ai caduti di guerra. In un’Italia ancora segnata dalle ferite del conflitto, queste cerimonie rappresentavano un momento di riflessione e memoria collettiva, ma anche di speranza per il futuro. Per Maria, la scuola doveva essere un luogo di continuità e crescita, dove i bambini potevano trovare una parvenza di normalità nonostante le difficoltà che li circondavano.
La sua attenzione nei confronti dei bambini emerge anche dal modo in cui descrive le difficoltà materiali che molti di loro dovevano affrontare. Nel suo diario del 23 febbraio 1948, Maria racconta di una giornata in cui gli alunni arrivavano a scuola con i piedi bagnati a causa della neve e delle scarpe inadatte. “Poverini,” scrive, “tanti mi facevano proprio pena così malvestiti e peggio con dei zoccoletti ai piedi dai quali entrava l’acqua”. Questo passaggio ci dà un’idea delle condizioni precarie in cui molti bambini vivevano, ma anche della compassione di Maria, che faceva del suo meglio per sostenerli e incoraggiarli a non abbandonare la scuola.
Un aspetto particolarmente significativo del diario di Maria De Giacomi è il suo costante impegno nell’educare i suoi alunni non solo nelle materie scolastiche, ma anche nei valori morali e civici. Il suo obiettivo era formare persone consapevoli e responsabili, pronte a contribuire alla società.
Il 20 gennaio 1948, Maria annota un episodio in cui parlò ai suoi alunni della disoccupazione e li invitò a riflettere su come anche loro potessero contribuire, attraverso piccoli sacrifici, ad aiutare chi era meno fortunato. Nonostante si trattasse di bambini piccoli, Maria credeva fermamente che l’educazione morale dovesse iniziare presto e che i valori della solidarietà e della generosità fossero fondamentali per crescere cittadini migliori.
Questa attenzione alla crescita umana degli alunni era centrale nel suo metodo di insegnamento. Per Maria, l’istruzione non era solo una questione di apprendimento delle nozioni di base, ma anche un processo attraverso il quale i bambini dovevano imparare a vivere in comunità, rispettarsi a vicenda e comprendere le difficoltà altrui.
Per comprendere appieno il contesto in cui operava Maria De Giacomi, è importante analizzare il sistema scolastico italiano dell’epoca. Durante il periodo fascista, l’istruzione era rigidamente controllata dallo Stato, che la utilizzava come strumento di propaganda per promuovere l’ideologia fascista. I programmi scolastici includevano elementi di educazione fisica, storia e cultura patriottica, e gli insegnanti erano spesso visti come agenti del regime, incaricati di inculcare nei giovani i valori di disciplina e lealtà verso la patria.
Tuttavia, molti insegnanti, come Maria, riuscivano a trovare un equilibrio tra l’esecuzione delle direttive del regime e l’educazione umana dei loro alunni. Sebbene il fascismo imponesse rigide regole sul sistema scolastico, Maria De Giacomi si concentrava sull’importanza dell’istruzione come mezzo per migliorare la vita dei suoi alunni e prepararli ad affrontare un futuro incerto.
Con la fine della guerra, l’Italia si trovava di fronte a enormi sfide, ma anche a grandi opportunità. Il periodo post-bellico fu caratterizzato da una forte spinta verso la ricostruzione delle istituzioni, tra cui la scuola. Maria De Giacomi continuò a insegnare durante questi anni difficili, impegnandosi a offrire ai suoi alunni un’istruzione solida che potesse aiutarli a costruirsi un futuro migliore.
Nel suo diario del 30 novembre 1947, Maria esprime soddisfazione per i progressi dei suoi alunni di seconda classe. Molti di loro erano riusciti ad apprendere l’addizione in colonna e mostravano un buon livello di competenza nella lettura. Tuttavia, Maria non si accontentava mai dei risultati ottenuti: continuava a spingere i suoi alunni a migliorare, incoraggiandoli a esercitarsi a casa e organizzando attività per stimolare la loro curiosità e il desiderio di apprendere.
In un’Italia che cercava di risollevarsi dalle macerie della guerra, l’istruzione era vista come uno degli strumenti principali per ricostruire il Paese. Gli insegnanti come Maria De Giacomi svolgevano un ruolo cruciale in questo processo, non solo trasmettendo conoscenze, ma anche aiutando a formare una nuova generazione di cittadini consapevoli e responsabili.
Il lavoro di maestra a Selva di Montebello si concluse nel 1948, ma il suo impatto su quella comunità e sui suoi alunni fu profondo e duraturo. Nel diario del 19 giugno 1948, Maria descrive l’ultimo giorno di scuola dell’anno, quando distribuì i libretti delle vacanze e raccomandò ai suoi alunni di leggere molto durante l’estate. Questo semplice consiglio riassumeva perfettamente la sua filosofia educativa: per Maria, l’istruzione non si fermava alle aule scolastiche, ma doveva essere un processo continuo, che accompagnava i bambini per tutta la vita.
La dedizione di Maria De Giacomi e il suo amore per l’insegnamento sono evidenti in ogni pagina del suo diario. Attraverso le sue parole, possiamo vedere il ritratto di un’insegnante che ha affrontato sfide enormi, ma che ha sempre creduto nel potere dell’istruzione e nella capacità dei suoi alunni di superare le difficoltà. Maria non era solo una maestra, ma una guida, una figura materna e una fonte di ispirazione per i suoi alunni, che grazie a lei hanno potuto costruire un futuro migliore.
La sua eredità è quella di un’insegnante che ha compreso l’importanza di educare non solo la mente, ma anche il cuore, aiutando i bambini a diventare non solo studenti migliori, ma persone migliori.

Umberto Ravagnani

FOTO: Scuola Elementare di Selva di Montebello (presso la vecchia Canonica, visibile a destra). (Foto Umberto Ravagnani).
NOTE: La maestra Maria De Giacomi ha insegnato nelle Scuole Elementari di Selva di Montebello dal 1930 al 1948 ed in quelle di Montebello fino al 1966.
BIBLIOGRAFIA: O. Gianesato, U. Ravagnani e M. E. Dalla Gassa, LA VECCHIA SCUOLA ELEMENTARE DI MONTEBELLO VICENTINO, Amici di Montebello, 2018, Montebello Vicentino.

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ROSANNA ZANESCO

[407] LA MAESTRA ROSANNA ZANESCO
La Maestra che ha cresciuto la generazione degli anni ‘70 e ‘80

Negli anni ‘70 e ‘80, l’Italia si trovava in una fase di grande cambiamento. La scuola rifletteva questa evoluzione, trasformandosi da istituzione rigida e autoritaria a luogo più inclusivo e attento ai bisogni degli studenti. In questo contesto, la figura dell’insegnante assumeva un ruolo cruciale.
A Montebello Rosanna Zanesco, maestra di scuola elementare, è stata una delle educatrici che hanno incarnato questa innovazione.
Con un approccio che combinava fermezza e sensibilità, Rosanna Zanesco ha saputo instaurare con i suoi alunni un legame speciale. Le sue classi non erano semplicemente spazi di apprendimento, ma ambienti dove i bambini potevano esprimere se stessi, coltivare curiosità e sviluppare il proprio potenziale. In un periodo in cui l’Italia stava evolvendo anche a livello economico e culturale, il ruolo di educatori come Rosanna era fondamentale per formare i cittadini del domani.
Qualche anno fa, Rosanna Zanesco ha rilasciato un’intervista a Maria Elena Dalla Gassa, in cui ha raccontato i suoi ricordi più vividi della vita scolastica di quei tempi. Attraverso le sue parole, emergono l’entusiasmo, la dedizione e l’amore per il mestiere che l’hanno resa indimenticabile per molte generazioni. Con piacere riproponiamo oggi quell’intervista, invitando chi l’ha conosciuta a condividere i propri ricordi.

« La mia era una classe tutta femminile perché all’epoca le classi erano tutte maschili o tutte femminili. L’edificio scolastico aveva due entrate distinte a destra quella delle femmine e a sinistra quelle dei maschi. Anche il cortile era diviso.
L’aula era arredata dai banchi, quelli “di una volta”, stravecchi, in legno, a due o più posti, con buchi dove si incastrava il calamaio in cui intingevamo i pennini delle nostre penne a cannuccia.
Di fronte alle fila dei banchi rialzata su una pedana c’era la cattedra e a destra c’era la lavagna; sulla parete frontale, al centro, era appeso il Crocifisso. La scuola era molto cattolica il prete insegnava religione, non c’era nessun laico che la insegnasse. I maestri e le maestre avevano altre materie. Quando ero scolara la figura dell’insegnante era carismatica, autorevole e incisiva nella formazione e nell’educazione degli alunni da avere quasi un debito morale nei loro confronti e soprattutto non si potrà mai disconoscere l’importanza e il ruolo prezioso che i maestri hanno avuto nella propria vita. Io ho voluto diventare insegnante anche per questo e per l’amore per i bambini.
Personalmente, nel corso dei cinque anni delle elementari, ricordo benissimo tutte le mie maestre. I primi tre anni ho avuto la maestra Caterina Bergami era una mastra che sapeva insegnare con autorevolezza e per incentivare le scolare dava dei premi. Io ne ho presi più di uno in matematica. Quando non ho più avuto la maestra Bergami ne è arrivata una che non ti insegnava molto faceva recitare sempre le preghiere e ti faceva fare sempre riassunti, ho fatto tantissimi riassunti, mi ricordo in particolare quelli delle fiabe di Andersen.
In quinta elementare per fortuna è arrivata la maestra Teresa Nicoletti, la quinta era un anno importante e bisognava essere preparate molto bene perché se volevi andare alle Medie dovevi sostenere un esame di ammissione. Era difficile questo esame, si veniva bocciati e non potevi ripeterlo più di un paio di volte.
Ho superato l’esame di ammissione e ho potuto andare alle Medie qua a Montebello.
Era il primo anno che c’erano le Scuole Medie in paese. Erano nell’edificio proprio vicino alla scuola Elementare.
In prima la classe era mista poi dalla seconda sono stati divisi i maschi dalle femmine in due sezioni distinte. Finite le medie mi sono iscritta alle Magistrali.
Dopo diplomata e prima di entrare di ruolo alle elementari di Montebello ho insegnato per tre anni al doposcuola sempre situato in questa scuola ed ero pagata dal Patronato scolastico. Mi ricordo si teneva un registro e il sabato il direttore, che era Cavallaro, veniva per vedere controllare cosa si era fatto. Quando ho superato il concorso nel 1973 sono stata due anni a Chiampo e poi sono venuta a Montebello e ho sempre insegnato qui fino alla pensione. » (Da “LA VECCHIA SCUOLA ELEMENTARE DI MONTEBELLO VICENTINO” di Ottorino Gianesato, Umberto Ravagnani e Maria Elena Dalla Gassa).

FOTO: Anno scolastico 1985-86, classe Ia mista. La maestra era Rosanna Zanesco (cortesia Rosanna Zanesco).

Umberto Ravagnani

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1945: TRA CAOS E LIBERAZIONE

[406] 1945: MONTEBELLO TRA CAOS E LIBERAZIONE
Dall’incubo della ritirata tedesca alla gioia della liberazione

L’aprile del 1945 segnò la fine di una lunga e devastante era per l’Italia. La Seconda Guerra Mondiale stava per concludersi, ma non senza lasciare un’ultima scia di terrore e caos. In questo scenario, Montebello divenne teatro di eventi drammatici e cruciali che avrebbero segnato per sempre la memoria dei suoi abitanti. Mentre i tedeschi si ritiravano in disordine e gli Alleati avanzavano inesorabilmente, il paese visse giorni di incubo, seguiti finalmente dall’atteso respiro di libertà.
A inizio 1945, la Linea Gotica rappresentava l’ultima roccaforte difensiva delle forze tedesche in Italia. Costruita lungo gli Appennini, questa linea doveva servire come un insormontabile baluardo contro l’avanzata degli Alleati. Tuttavia, con l’approssimarsi della primavera, le forze tedesche si trovarono sull’orlo del collasso. Le loro truppe, stremate da mesi di combattimenti, soffrivano la mancanza di rifornimenti e il continuo assalto degli eserciti angloamericani, supportati dai partigiani italiani.
Quando le linee difensive iniziarono a cedere sotto la pressione degli attacchi alleati, il comando tedesco ordinò una ritirata disperata verso il nord. Tuttavia, questa fuga divenne presto un caos incontrollato. I convogli tedeschi, esposti al dominio incontrastato dell’aviazione alleata, furono decimati lungo le vie di ritirata. Soldati che un tempo marciavano con fierezza si trovarono ridotti a fuggiaschi, costretti a cercare salvezza a piedi o su biciclette rubate.
Montebello, situato lungo la via di ritirata tedesca, divenne un luogo di transito per queste truppe in fuga. Per giorni, gli abitanti assistettero, impotenti e spaventati, al passaggio di colonne sbandate di soldati tedeschi. Provenienti da Torri di Confine, questi uomini attraversavano il paese con passo incerto, spesso senza più una meta precisa. Il loro morale era distrutto, così come le loro risorse. Rubavano biciclette per proseguire la fuga, cercando disperatamente di allontanarsi dal fronte che avanzava inesorabilmente.
I montebellani, rinchiusi nelle loro case o nascosti nei rifugi, vivevano in un clima di costante tensione. Ogni giorno, il rumore di passi pesanti e il fruscio di divise logore riempivano le strade del paese. La paura di una possibile battaglia imminente, di distruzioni e saccheggi, era palpabile. Eppure, i tedeschi non avevano né la forza né i mezzi per difendere o distruggere Montebello. Erano ormai ombre in fuga, consapevoli di essere alla fine di una guerra che non potevano più vincere.
Per comprendere appieno l’importanza degli eventi che si svolsero a Montebello, è necessario collocare il tutto nel contesto della più ampia campagna militare in Italia. Dopo lo sbarco alleato in Sicilia nel 1943 e l’armistizio dell’8 settembre dello stesso anno, l’Italia divenne un campo di battaglia tra le forze alleate e quelle dell’Asse. La guerra si trasformò in una lunga e sanguinosa avanzata attraverso una serie di linee difensive tedesche, di cui la Linea Gotica fu l’ultima e più imponente.
Con l’inizio del 1945, era ormai chiaro che la fine della guerra in Europa era vicina. Gli Alleati avanzavano da sud, sostenuti da bombardamenti continui e da un crescente movimento partigiano, mentre i tedeschi cercavano disperatamente di rallentare questa avanzata. La liberazione dell’Italia settentrionale divenne una questione di tempo, e Montebello, come molti altri piccoli centri, si trovò improvvisamente al centro di questa tempesta.
Durante quei giorni di aprile, Montebello era costantemente sorvegliato dall’alto. Gli Alleati inviavano regolarmente i loro aerei da ricognizione, soprannominati “Cicogne”, a sorvolare il paese. Questi velivoli erano incaricati di monitorare ogni movimento nemico e di segnalare qualsiasi tentativo di resistenza. Se i tedeschi avessero cercato di fortificare il paese, Montebello sarebbe stato ridotto in macerie dai bombardamenti alleati.
Ma il destino fu clemente: le truppe tedesche, ormai allo sbando, non avevano né i mezzi né la volontà di organizzare una difesa. Il paese, pur segnato dalla presenza di soldati in fuga, fu risparmiato dalla distruzione. Gli abitanti, pur consapevoli del pericolo, potevano solo sperare che la tempesta della guerra passasse senza lasciare altre cicatrici.
La notte del 24 aprile 1945, Montebello si trovava sospeso tra il terrore e la speranza. I tedeschi erano scomparsi, ritiratisi senza combattere, e il paese giaceva in un silenzio irreale. Gli abitanti, rinchiusi nelle loro case, attendevano con ansia l’arrivo delle forze alleate. Ogni rumore nella notte sembrava portare con sé la promessa di un cambiamento imminente, ma nessuno poteva sapere cosa sarebbe successo nelle ore successive.
Poco dopo mezzanotte, il silenzio fu rotto dal rombo metallico dei cingoli dei carri armati americani. Gli Alleati erano finalmente arrivati. I carri armati attraversarono il paese senza incontrare resistenza, e Montebello, dopo anni di paura e oppressione, si ritrovò improvvisamente libera. La liberazione, tanto attesa, era finalmente realtà. La guerra, con tutto il suo carico di orrori, era finita.
Il 25 aprile 1945, Montebello si svegliò sotto un cielo sereno e carico di promesse. Le strade del paese, che fino al giorno prima erano state teatro di paura e tensione, si riempirono di persone che uscivano finalmente dalle loro case. L’aria era carica di emozioni contrastanti: sollievo, gioia, ma anche tristezza per le sofferenze patite. La piazza principale divenne il cuore pulsante della celebrazione, un luogo dove i montebellani si riunirono per abbracciarsi, piangere e ridere insieme.
Il culmine della festa arrivò con l’ingresso di una camionetta americana nella piazza del Municipio. I soldati, accolti come liberatori, distribuivano cioccolatini e sorrisi, mentre la folla li circondava in un’esplosione di gratitudine. Montebello, che aveva vissuto anni di oppressione e paura, si trovava finalmente a festeggiare la libertà. Quel giorno, il paese iniziò a guarire dalle ferite della guerra, riscoprendo il significato della parola “pace”.
La liberazione di Montebello non fu solo un momento di gioia locale, ma rappresentò un capitolo importante nella storia della liberazione italiana. In tutta Italia, il 25 aprile divenne il simbolo della vittoria sulla tirannia e della rinascita di una nazione. Montebello, con la sua storia di sofferenza e riscatto, si unì a questo grande movimento di rinascita, diventando un simbolo di speranza e di libertà.
Oggi, la memoria di quei giorni vive ancora nelle storie raccontate dagli anziani e nelle commemorazioni annuali. Ogni anno, il paese ricorda la sua liberazione, onorando il sacrificio di chi ha combattuto per la libertà e celebrando la forza di una comunità che ha saputo resistere e risorgere. La liberazione di Montebello è un ricordo che continua a ispirare, un messaggio di coraggio e speranza per le generazioni future.

Umberto Ravagnani

BIBLIOGRAFIA: P. Savegnago, Le organizzazioni Todt e Poll in provincia di Vicenza, Padova, 2012.
A.Maggio – L.Mistrorigo, “Montebello Novecento“, 1997.
FOTO: La celebrazione del 25 aprile a Montebello davanti al monumento ai Caduti circa 55 anni fa. In primo piano, al centro, FIORELLO BOSCARDIN sindaco dal 1964 al 1975 (cortesia Marco Boscardin. Elaborazione grafica digitale e colore di Umberto Ravagnani).

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MONTEBELLO SOTTO ASSEDIO

[405] 1943: MONTEBELLO SOTTO ASSEDIO
La grande fossa anticarro e la lotta per sopravvivere

Nel cuore dell’inverno del 1943-44, l’Italia settentrionale era avvolta in un’atmosfera di gelo e terrore. La guerra, che ormai devastava l’Europa da anni, si era insinuata anche nei piccoli centri abitati, trasformando la quotidianità in un susseguirsi di privazioni e paura. Montebello, un tranquillo comune veneto, divenne il teatro di un dramma umano quando le truppe tedesche intensificarono la loro presenza.
In tutto il Nord Italia, le risorse scarseggiavano e i bombardamenti degli Alleati aumentavano di intensità, colpendo le infrastrutture strategiche per rallentare l’avanzata nemica. A Montebello, i ponti sul torrente Guà, cruciali per i movimenti militari, erano spesso bersaglio degli attacchi aerei, e i genieri dell’Organizzazione Todt lavoravano incessantemente per ripararli. La popolazione, ormai stremata, viveva con l’ansia costante di un’esplosione improvvisa o di un rastrellamento notturno.
L’estate del 1944 portava con sé non solo il caldo torrido, ma anche l’angoscia di un conflitto che si avvicinava sempre più. Gli Alleati avanzavano lentamente verso il nord, mentre le forze naziste si preparavano a resistere con ogni mezzo possibile. Montebello, per la sua posizione strategica, era destinato a diventare un punto chiave nella difesa tedesca. L’atmosfera era carica di tensione, e ogni giorno sembrava più pesante del precedente.
Fu in questo contesto che giunse la notizia devastante: la mobilitazione civile forzata. Una domenica di metà agosto, mentre i fedeli uscivano dalla Messa delle dieci, trovavano ad attenderli un ordine terribile. Manifesti affissi nella piazza del Municipio annunciavano che tutti i cittadini dai 18 ai 60 anni per le donne, e fino ai 65 per gli uomini, dovevano presentarsi il giorno seguente all’alba, armati di pala e piccone.
Lunedì mattina, la piazza del Municipio era gremita di persone. Il comando tedesco, con la precisione che lo caratterizzava, aveva preparato una lista di nomi fornita dall’ufficio anagrafe. Non c’era modo di sottrarsi a quell’obbligo: chi non si fosse presentato avrebbe rischiato la deportazione in un campo di concentramento o, peggio, l’esecuzione sommaria.
Tra i convocati c’erano uomini e donne di ogni estrazione sociale. Perfino i sacerdoti, solitamente rispettati e lasciati in pace, erano stati costretti a partecipare, insieme a medici e impiegati comunali. Quella che doveva essere una normale giornata estiva si trasformava in una marcia forzata verso il ponte sul Chiampo, sotto il sole cocente e la sorveglianza dei soldati tedeschi armati.
Il compito assegnato ai montebellani era chiaro: scavare una grande fossa anticarro, un’opera monumentale destinata a rallentare l’avanzata delle truppe alleate. La fossa, lunga dieci chilometri e larga fino a cinque metri, doveva correre dal ponte sul Chiampo fino alle colline di Sarego, tagliando in due la campagna veneta. Era una missione disperata, un ultimo tentativo da parte dei tedeschi di guadagnare tempo mentre le loro forze si ritiravano verso le Alpi, dove speravano di organizzare una difesa finale.
Ogni giorno, sotto la supervisione della Todt, oltre mille persone lavoravano senza sosta, sfidando la fatica e il caldo soffocante. I meno giovani, soprattutto, faticavano a reggere il ritmo, ma l’alternativa era impensabile. I soldati tedeschi vigilavano attentamente, pronti a intervenire con la forza se il lavoro non fosse stato portato avanti con sufficiente rapidità.
Per molti, il lavoro forzato era una condanna, ma anche un modo per sopravvivere. La Todt pagava coloro che lavoravano nella fossa, e sebbene le voci dicessero che il denaro distribuito fosse falso, quelle lire rappresentavano comunque una possibilità di acquistare il poco cibo disponibile. Ogni settimana, i lavoratori si radunavano per ricevere la loro paga, una cerimonia tanto assurda quanto necessaria in quel contesto di guerra.
Remo Schiavo, classe 1928, che in quel periodo lavorava a Montebello, racconta: « C’erano i soldi, io prendevo 40 lire al giorno, mio padre 60. Ci pagavano ogni settimana o dieci giorni. Con quella cifra potevamo comprare un chilo di carne […] ci pagavano con banconote nuove, si diceva che erano false e che i tedeschi se le stampavano. Ci pagavano in cortile, c’era un banchetto con un pagatore, una segretaria e un sorvegliante… ».
Nonostante la brutalità della situazione, gli abitanti di Montebello non si lasciarono sopraffare. Seppur costretti a lavorare per il nemico, trovarono modi per resistere. Alcuni rallentavano deliberatamente il lavoro, sperando di sabotare, anche se in minima parte, il progetto tedesco. Altri cercavano di mantenere alto il morale, raccontandosi storie di speranza durante le brevi pause.
Questa resistenza passiva era forse l’unica arma rimasta a una popolazione stremata. Non c’erano armi da impugnare, né fortificazioni da difendere, ma c’era la determinazione a non cedere del tutto alla disperazione. Ogni gesto, ogni parola scambiata, diventava un atto di ribellione silenziosa contro l’occupante.
La grande fossa anticarro di Montebello non riuscì a fermare l’avanzata degli Alleati, ma il suo significato va oltre la sua funzione militare. Essa rappresenta un monumento alla resilienza di una comunità che, nonostante tutto, riuscì a mantenere la propria umanità in mezzo alla disumanità della guerra. I giorni di lavoro forzato sotto il sole rovente, sorvegliati da soldati armati, sono rimasti impressi nella memoria collettiva di Montebello, un ricordo doloroso ma anche una testimonianza di coraggio.
Alla fine, l’occupazione tedesca si concluse con la ritirata delle truppe e l’arrivo delle forze alleate. La fossa anticarro rimase come un segno indelebile del passaggio della guerra, ma anche come simbolo della capacità di resistenza di un popolo. Il ricordo di quei giorni continua a vivere nelle storie tramandate, non solo come memoria di sofferenza, ma anche come testimonianza di una forza d’animo che ha permesso a Montebello di sopravvivere agli orrori del conflitto.

Umberto Ravagnani

FOTO: Scavo del fossato anti-carro durante l’inverno 1943-44.
BIBLIOGRAFIA
: P. Savegnago, Le organizzazioni Todt e Poll in provincia di Vicenza, Padova, 2012.
A.Maggio – L.Mistrorigo, “Montebello Novecento“, 1997.

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LA PALA DELLA MADONNA DI MB

 

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NOTTE DI PAURA AL BORGO

 

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ANTONIO AGOSTINI

 

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ARTURO COSTA

 

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UNA CURVA MORTALE

 

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IL VIOLINO E IL DESTINO

 

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MEMORIE DI ZONDERWATER

[398] MEMORIE DI ZONDERWATER
Un racconto di prigionia e speranza nella Seconda Guerra Mondiale

Oggi vi raccontiamo una storia poco conosciuta della Seconda Guerra Mondiale, che si svolge in un campo di prigionia molto lontano dall’Italia, a Zonderwater, in Sudafrica. Questa vicenda ci viene narrata dalla nostra concittadina Elisa Longarato, che negli ultimi anni ha dedicato tempo e passione a raccogliere testimonianze e notizie per ricostruire la prigionia di suo padre Vittorio in quel luogo.
Elisa ha partecipato, il 21 marzo 2024, a un evento organizzato dalla ‘The University of Sidney‘ e dalla ‘New York University‘ che si è tenuto al ‘John D. Calandra Italian American Institute‘ di New York, collegandosi in remoto da casa sua. In quell’occasione, ha raccontato con emozione e in inglese la storia della prigionia di suo padre Vittorio in Sudafrica durante la Seconda Guerra Mondiale. Ha descritto le difficili condizioni di vita, la lontananza dalla patria e dagli affetti e come suo padre e i suoi compagni riuscirono a trovare forza e speranza in una situazione così disperata.
Circa un mese dopo, Elisa è stata invitata in persona a un altro evento a New York che si è svolto in due giorni. Il 23 aprile 2024 presso il ‘Center for Italian Modern Art‘ (CIMA ) e il 24 aprile presso la ‘NYU Casa Italiana Zerilli-Marimò‘. Il primo giorno, l’evento era intitolato “Preservare i ricordi della prigionia di guerra e la loro eredità” e aveva l’obiettivo di mantenere viva la memoria di queste esperienze dolorose ma significative. Durante questo incontro, Elisa ha riproposto, insieme ad altri testimoni collegati da vari Paesi del mondo, la storia di suo padre Vittorio, condividendo aneddoti e dettagli che hanno reso la narrazione ancora più intensa e coinvolgente.
Il secondo giorno il tema era ‘Suoni di prigionia: Musica dei prigionieri italiani durante la seconda guerra mondiale‘. Dopo la presentazione e il concerto del Maestro Francesco Lotoro su musiche composte in prigionia, si è tenuta una lezione con gli studenti della New York University. I ragazzi hanno osservato con attenzione i libri, le lettere, gli oggetti che Vittorio si era portato dalla prigionia; in particolare il banjo-mandolino costruito con mezzi di fortuna lavorando di notte. Hanno espresso le loro opinioni e fatto domande alle quali Elisa ha risposto raccontando particolari della vita in guerra e prigionia di suo padre. Elisa è stata molto colpita dall’interesse sulla storia dei prigionieri italiani dei ragazzi “americani” provenienti da vari paesi del mondo.
La testimonianza di Elisa è fondamentale per mantenere vivi i ricordi delle difficoltà affrontate dai prigionieri di guerra e per comprendere meglio la nostra storia collettiva. L’impegno di Elisa nel preservare questi ricordi rappresenta un omaggio alla resilienza e al coraggio di suo padre e di tutti coloro che hanno condiviso la sua sorte. Grazie a persone come Elisa, queste storie non vengono dimenticate e continuano a ispirare le generazioni future, ricordando a tutti noi il valore della memoria e dell’umanità anche nei momenti più bui.
Ecco il suo racconto, il 21 marzo, da casa sua in collegamento da remoto e poi, il 23 aprile, da New York:

IL RACCONTO EMOZIONANTE DI ELISA TRA MONTEBELLO E NEW YORK


LEGGI...

« Sono Elisa Longarato e ringrazio Elena Bellina (New York University) e Giorgia Alù (Sidney University) per l’invito. È un onore per me partecipare a questo incontro. Mi scuso in anticipo per il mio pessimo inglese.
Vi racconterò di mio padre, Vittorio Longarato, che combatté in Nord Africa nell’8° Rgt. Bersaglieri, durante la Seconda Guerra Mondiale, e della sua prigionia in Egitto e poi in Sud Africa fino al 1947.
Vorrei riassumere il percorso che mi ha portato a dedicarmi alla “missione” di rintracciare la prigionia di mio padre durante la Seconda Guerra Mondiale. Fino a circa quindici anni fa non avevo mai sentito il nome “Zonderwater”. Mio padre ha parlato poco della guerra e pochissimo della sua prigionia, solo negli ultimi anni della sua vita ha raccontato qualcosa ai miei fratelli e pezzo dopo pezzo ora stiamo ricostruendo la sua storia. Sapevo solo che era stato ferito in una battaglia nel deserto tra Libia ed Egitto nel 1941, e che lo credevano morto. Fu salvato da un medico tedesco, anche lui prigioniero, che lo tirò fuori dal mucchio dei cadaveri dei soldati. Dopo due mesi trascorsi al General Hospital di Geneifa in Egitto, e un altro mese nelle “gabbie” egiziane, è stato trasferito in Sud Africa, prima vicino a Durban e poi vicino a Pretoria. Quando tornò a casa, nel febbraio del 1947, aveva con sé una valigia di latta (fatta con barattoli di marmellata) piena di libri provenienti dalla biblioteca del campo allora quasi abbandonato, una valigia di cartone con alcuni oggetti personali, alcuni vestiti, una coperta e il suo banjo-mandolino e i quaderni con la musica che scrisse a Zonderwater.
Realizzò il banjo-mandolino con il legno di una panca del campo, con la pelle di un coniglio, la ghiera di una bomba, il dorso di un pettine, mezzi bottoni di madreperla e fili metallici per le corde, presi dai cavi dei freni delle motociclette.
Circa quindici anni fa ho iniziato a leggere e a riordinare centinaia di lettere che scrisse durante i suoi 10 anni lontano da casa (1937-1947 militare-guerra-prigionia). Nel 2010 ho letto il libro “I Diavoli di Zonderwater” di Carlo Annese, (scrittore e giornalista sportivo che era stato in Sud Africa per i Mondiali di calcio).
Mi resi conto che mio padre era stato a Zonderwater!
Poi per caso ho scoperto che in un libro scritto da un Generale dell’8° Rgt. Bersaglieri viene menzionata l’azione di mio padre nella battaglia denominata “Operazione Brevity” avvenuta il 15 maggio 1941 a Sollum-Capuzzo-Halfaya, dove mio padre rimase gravemente ferito. Ho saputo che il campo di prigionia in Egitto era il Campo 306 a Geneifa e che i campi in Sud Africa erano a Pietermaritzburg e Zonderwater.
Ho fatto qualche ricerca online e non c’era niente su Zonderwater. Poi ho trovato un gruppo Facebook appena aperto su Zonderwater a cui mi sono iscritta e nel novembre 2011 sono andata con altri membri del gruppo in Sud Africa. Abbiamo incontrato il presidente dell’Associazione Zonderwater Block ex POW, Sig. Emilio Coccia. Abbiamo visitato l’area in cui si trovavano i due campi e abbiamo partecipato alla cerimonia la prima domenica di novembre al cimitero di Zonderwater (era il 70° anniversario dell’apertura del campo).
Poi, ho deciso di creare www.zonderwater.com, un sito web collegato alla nostra pagina Facebook, dove avrei potuto creare un database con informazioni e immagini sulla prigionia di guerra italiana e sui soldati detenuti in Sud Africa, dove i discendenti di altri prigionieri avrebbero potuto pubblicare informazioni e foto dei loro parenti. Queste informazioni sono soggette a revisione e approvazione. Mio nipote mi ha aiutato a creare il sito web.
Sono rimasta in contatto con Emilio Coccia. Finora, attraverso il sito e la pagina Facebook, ho ricevuto migliaia e migliaia di email con richieste di informazioni da parte di parenti di ex prigionieri di guerra. Di solito li consiglio su come svolgere le loro ricerche e li metto in contatto con Emilio Coccia per avere informazioni sui loro parenti registrati nell’archivio Zonderwater dell’Associazione.
Sono tornata in Sud Africa nel novembre 2017 con un altro gruppo. Durante la cerimonia ho avuto l’onore di deporre una corona insieme a Paolo Ricci, allora l’ultimo prigioniero di guerra vivente di Zonderwater in Sud Africa (morto nel 2022). Era il 70° anniversario della chiusura del campo (1947-2017). Ad oggi il gruppo Facebook conta circa 2.000 membri.
Ogni anno organizziamo un raduno (escluso il periodo pandemico). L’anno scorso abbiamo organizzato il nostro incontro annuale a Roma ed è stata la prima volta senza prigionieri di guerra. Sfortunatamente, sono tutti morti. Emilio Coccia era presente come sempre.
Zonderwater è ricordata come “La città del prigioniero”. Molti soldati italiani catturati dagli inglesi nell’Africa settentrionale e orientale furono imbarcati su navi dirette a Durban in Sud Africa. Una volta sbarcati venivano caricati sui treni con destinazione finale il campo di prigionia di Zonderwater.
Prima di raggiungere la loro destinazione, i prigionieri venivano fermati nel campo di transito di Pietermaritzburg, situato a 75 chilometri da Durban. Il campo ha funzionato come pronto soccorso, medico e struttura di controllo, lavaggio, disinfezione e ristoro. Quindi i prigionieri di guerra venivano rimessi sul treno diretto a Zonderwater.
Tuttavia, molti prigionieri rimasero a Pietermaritzburg per tutto il periodo di cattività. In alcuni periodi il campo ospitava fino a 8.000 uomini.
Zonderwater vicino a Cullinan (43 Km da Pretoria), il più grande campo di prigionia di guerra costruito dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, ospitò più di 100.000 soldati italiani dall’aprile 1941 al gennaio 1947.
Nonostante la guerra fosse finita nel 1945, il campo venne chiuso solo nel 1947 a causa dei ritardi nel rimpatrio dei prigionieri. Tuttavia, molti ex prigionieri decisero di rimanere in Sud Africa.
L’avventura umana di Zonderwater parte dalla tendopoli del 1941, trasformata nel 1943 (con il colonnello Prinsloo) in quell’enorme e permanente centro abitato formato da mattoni rossi e costruzioni in legno destinato poi a diventare quasi una leggenda: 14 blocchi, ciascuno composto da 4 campi (56 in totale). Ogni campo ospitava 2.000 uomini, quindi, un blocco poteva ospitare 8.000 prigionieri. Nel complesso, Zonderwater aveva una capacità totale di 112.000 uomini.
Il 2 novembre 1947, un gruppo di ex prigionieri di guerra in Sud Africa tornò sul posto per mantenere aperto il cimitero e organizzò cerimonie commemorative. Questa struttura basata sul servizio volontario è stata formalizzata nel 1965 con la fondazione dell’Associazione Zonderwater Block ex POW. L’attuale presidente dell’Associazione, Emilio Coccia, è in carica dal 2000. Zonderwater è stata visitata per la prima volta nel 2002 dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi.
Grazie.
Elisa Longarato »

FOTO: 1) Elisa Longarato racconta la storia di suo padre Vittorio dal “Center for Italian Modern Art“, a New York il 23 aprile 2024.
2) La valigetta con alcuni oggetti personali di Vittorio Longarato. Elisa, in occasione del suo intervento a New York ha esibito il banjo-mandolino costruito da suo padre durante la prigionia (cortesia Elisa Longarato).

Umberto Ravagnani

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GEMMA CENZATTI

 

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DUE VIVANDIERE AUSTRIACHE

 

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NASCE IL MERCATO A MONTEBELLO

 

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FRA LUIGI MARIA VERLATO

 

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L’ORIGINE DELLA CHIESA DI SELVA

 

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CASERME E SOLDATI A MONTEB.

 

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LA SAGA DEI MALTRAVERSO

 

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DON DOMENICO GIAROLO

 

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INGENTE PASSAGGIO DI PROPRIETÀ

 

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ANTICHI MESTIERI A MONTEBELLO

 

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DON ANGELO CRASCO

 

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IL MATRIMONIO S’HA DA FARE

 

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