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GIUSTIN VALMARANA

[429] GIUSTIN VALMARANA
Potere, Conflitti e Patrimonio

Giustin Valmarana era un uomo di grande influenza, il cui nome era legato a immensi possedimenti e a un patrimonio che lo rendeva una delle figure più potenti del suo tempo. Dai documenti catastali dell’epoca, emerge un quadro impressionante: a Montebello possedeva 291 campi coltivati, diverse case, una decima e persino un’abitazione con licenza per ospitare un’osteria e una macelleria. Le sue proprietà a Montebello erano affittate a famiglie di spicco come i Merlughi, i Padoan, i Pizzardini e i Marangoni. Oltre a queste, si aggiungevano case situate in Contrada della Chiesa, al Borgo e alla Guà. Spiccano tra i suoi beni l’osteria Grande, l’osteria alla Guà e una macelleria particolarmente redditizia. Inoltre, la casa in Contrada Vigazzolo e numerose altre abitazioni gli garantivano un reddito annuo considerevole di 221 ducati. I suoi possedimenti si estendevano su vaste aree: 68 campi al Vanzo, 40 al Frassine, 4 a San Egidio e molti altri, rendendolo un proprietario terriero di straordinario rilievo.
Il primo gennaio del 1725 fu una data chiave per il futuro della famiglia Valmarana. I fratelli di Giustin, Leonoro, don Giulio Cesare e Bartolomeo, si riunirono per stabilire un piano che garantisse la continuità della loro casata. Essendo tutti figli del defunto conte Cristoforo Valmarana, la responsabilità di assicurare un futuro alla famiglia ricadeva su di loro. Tuttavia, né Leonoro né Bartolomeo volevano assumersi l’impegno del matrimonio, mentre don Giulio Cesare, essendo un uomo di Chiesa, non poteva prendere parte a questioni ereditarie. Così, la responsabilità cadde su Giustin, il quale accettò il compito di sposarsi e generare eredi per il bene della dinastia. Per consolidare l’accordo, Leonoro dichiarò che, in caso di divisione dei beni, avrebbe ceduto un terzo della sua quota ai figli maschi che sarebbero nati dal matrimonio di Giustin. Inoltre, stabilì che, alla sua morte, il suo intero patrimonio sarebbe andato ai nipoti. Pochi mesi dopo, il 9 marzo 1725, anche don Giulio Cesare e Bartolomeo decisero di fare lo stesso, affidando a Giustin la gestione dell’intero patrimonio e nominandolo amministratore unico.
Questo incarico portava con sé enormi responsabilità. Giustin non solo doveva occuparsi della gestione delle terre e degli affitti, ma anche garantire ai fratelli una rendita sufficiente per vivere agiatamente, compresa la possibilità di avere una dimora qualora avessero scelto di non risiedere nella casa di famiglia a Vicenza. Tuttavia, nonostante questi accordi, ben presto scoppiò un conflitto. Don Giulio Cesare avviò una lunga battaglia legale contro il fratello, accusandolo di non fornirgli abbastanza denaro per mantenere uno stile di vita decoroso in qualità di abate dei Filippini. Don Giulio aveva un carattere instabile: entrava e usciva ripetutamente dall’ordine religioso, cambiava spesso residenza e, quando si trovava a Montebello, alloggiava nella casa di Francesco Piana, in contrada della Chiesa. Era noto per la sua propensione a spendere generosamente e per la sua tendenza a elargire doni in occasione di eventi importanti, come la corsa del Palio di Montebello. La richiesta di don Giulio Cesare di raddoppiare l’assegno annuale portò a una controversia che sfociò in un lungo processo legale, caratterizzato da scambi di accuse e tensioni familiari. Giustin si difese sostenendo di aver sempre rispettato gli accordi, sottolineando che il matrimonio era stato un onere imposto dai fratelli e che doveva sostenere le spese per cinque figlie, due figli maschi e due sorelle monache, oltre a gestire un’enorme proprietà.
Il caso arrivò prima davanti al podestà di Vicenza e poi alle autorità della Serenissima a Venezia. Per fare chiarezza sulla questione, vennero analizzati i testamenti della famiglia Valmarana e i beni che Giustin aveva acquisito dopo la morte del padre. Questi documenti si rivelarono cruciali per comprendere la distribuzione del patrimonio e la sua gestione nel tempo.
Uno dei simboli più evidenti del potere e della ricchezza della famiglia Valmarana era la loro magnifica villa a Montebello, oggi conosciuta come villa Zonin. Questa splendida residenza venne edificata nel 1707 per volontà del conte Cristoforo Valmarana, come indicava un’iscrizione scolpita sulla facciata e riportata dallo storico Faccioli: «Christophorus comes de Valmarana q. Com. – Eleonori a fundamentis erexit – Anno MDCCVII». Tuttavia, durante l’occupazione francese, la villa subì un destino inaspettato: fu trasformata in un albergo pubblico e divenne nota come l’Osteria Grande. Questa trasformazione la rese un punto di riferimento per gli ufficiali francesi di stanza nella regione. Si racconta che lo stesso Napoleone Bonaparte, dal balcone della villa, abbia infiammato la folla con uno dei suoi celebri discorsi. Anche il patriota Silvio Pellico vi soggiornò durante il suo tragico viaggio verso la prigionia dello Spielberg.
Un dettaglio interessante legato alla villa riguardava il suo ingresso. Per accedere all’Osteria Grande, infatti, era necessario scendere alcuni gradini, poiché nel tempo la strada principale (oggi via XXIV Maggio) era stata sopraelevata a causa dell’innalzamento del letto del fiume Chiampo. La facciata della villa, impreziosita da quattro maestose paraste doriche, una raffinata trabeazione e un frontone decorato con eleganti statue, la rendeva una delle dimore più affascinanti e iconiche della zona.
Nel corso degli anni, la storia della famiglia Valmarana continuò a intrecciarsi con le vicende politiche e sociali del tempo. Giustin, nonostante le dispute e le difficoltà, rimase una figura centrale nella gestione del patrimonio familiare, lasciando un’impronta duratura nella storia di Montebello e nei ricordi di chi visse in quel periodo. Il suo impegno nella conservazione delle ricchezze e nella gestione delle proprietà dimostrò la sua abilità e la sua determinazione nel mantenere saldo il nome della famiglia Valmarana.

BIBLIOGRAFIA: – L.Bedin, “Santa Maria di Montebello” Vol II, Montebello Vicentino 2018.
– B. Munaretto, “Memorie storiche di Montebello Vicentino“, Montebello Vicentino 1932.
FOTO: Villa Valmarana-Boroni in una foto di qualche anno fa (Umberto Ravagnani).

Umberto Ravagnani

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IL MONTE DEI FRATI

[428] IL MONTE DEI FRATI
Un enigma affascinante

Nel 1731, a Montebello Vicentino, il prevosto Don Pietro Caprini decise di intraprendere un’iniziativa che avrebbe cambiato profondamente la vita spirituale del paese. Animato dal desiderio di rafforzare la fede e migliorare l’assistenza spirituale alla comunità, Don Pietro, con l’approvazione della Spettabile Comunità, invitò i Padri Minori Riformati a stabilirsi nella sua parrocchia. Questo gesto, accolto con entusiasmo, segnò l’inizio di un nuovo capitolo nella storia del territorio.
Il 14 settembre di quello stesso anno iniziarono i lavori per la costruzione del Sacro Ospizio. L’edificio, situato sul colle sopra la contrada Mussolina, in un’area chiamata oggi Contrada Ospizio, era pensato per offrire accoglienza ai frati e per diventare un luogo di spiritualità per l’intera comunità. Ben presto, il colle fu ribattezzato Monte dei Frati, un nome che rifletteva la presenza costante e significativa dei religiosi.
Il Sacro Ospizio non era solo una dimora per i frati, ma un centro pulsante di attività religiose e sociali. All’interno fu costruito un oratorio pubblico dedicato a San Pietro d’Alcantara, un santo molto amato dai Francescani, noto per la sua vita di austerità e la profonda devozione. L’oratorio divenne presto un punto di ritrovo per i fedeli, che vi si recavano per pregare e partecipare alle funzioni religiose.
I frati si distinsero per il loro instancabile impegno verso la comunità. Non si limitarono a dedicarsi alla preghiera e alla meditazione, ma presero parte attiva alla vita della parrocchia. Collaboravano nelle funzioni della Chiesa Prepositurale, offrivano conforto spirituale agli ammalati e si occupavano anche di aiutare le famiglie in difficoltà. La loro presenza era un faro di speranza, specialmente nei momenti più difficili.
Uno degli aspetti più apprezzati del loro lavoro era la predicazione domenicale durante l’Avvento. Ogni settimana, i frati condividevano sermoni pieni di significato e ispirazione, capaci di toccare i cuori di tutti i presenti. I loro messaggi, improntati alla riflessione e alla speranza, accompagnavano i fedeli verso il Natale, rafforzando il senso di comunità e la devozione. Questo impegno durò con costanza fino al 1769, lasciando un segno indelebile nella memoria collettiva.
Con il passare degli anni, il Sacro Ospizio divenne sempre più importante per la comunità. Il prevosto Leonardo Sangiovanni, che succedette a Don Pietro Caprini, condivise la stessa visione di accoglienza e sostegno verso i frati. Non solo li accolse con grande calore, ma li supportò in ogni necessità. Li autorizzò a celebrare la messa nella chiesa parrocchiale e fornì loro tutto il necessario per portare avanti i riti religiosi.
Nei primi tempi, le celebrazioni avvenivano in un semplice casone provvisorio. Tuttavia, la crescente importanza della loro missione portò alla costruzione di un convento vero e proprio, che divenne la loro dimora stabile. Questo edificio non era solo un luogo fisico, ma un simbolo di dedizione e servizio. Era un punto di riferimento per chi cercava aiuto spirituale o semplicemente un luogo dove trovare pace e conforto.
Il Monte dei Frati, con il suo Sacro Ospizio e l’oratorio, diventò un centro vitale per l’intera comunità di Montebello Vicentino. La presenza dei Padri Minori Riformati rappresentava un sostegno tangibile, sia dal punto di vista spirituale che sociale. Le loro iniziative, dalla cura degli ammalati alla predicazione, testimoniavano una dedizione profonda verso il prossimo e un’autentica vocazione Francescana.
Questo luogo, nato dall’intuizione di Don Pietro Caprini e portato avanti con passione dai frati e dalla comunità, divenne un esempio concreto di come la fede possa trasformare un territorio.
I Frati Minori Riformati furono una delle principali comunità francescane, poste sotto il ministro generale degli Osservanti. Nel 1897 furono uniti agli Osservanti, ai Recolletti e agli Alcantarini, formando l’Ordine dei Frati Minori.
Dopo la separazione tra Osservanti e Conventuali, il dibattito sulla fedeltà alla regola francescana continuò a scuotere l’Ordine, dando vita a nuovi movimenti di riforma. In Italia, i frati desiderosi di seguire una disciplina più rigorosa presero il nome di Riformati. Questo ramo ebbe origine il 6 gennaio 1519, quando Francesco Licheto, ministro generale degli Osservanti, affidò il convento di Fonte Colombo, vicino Rieti, a Bernardino d’Asti e Stefano da Molina, figure centrali del rinnovamento.
Nel 1532, papa Clemente VII, con la bolla In suprema “militantis Ecclesiae”, autorizzò i frati più rigorosi a ritirarsi in conventi dedicati, obbligando i ministri provinciali a creare spazi per queste comunità. Successivamente, nel 1579, papa Gregorio XIII, con la bolla “Cum illius vicem”, concesse maggiore autonomia ai Riformati, che furono organizzati in custodie. Nel 1639, papa Urbano VIII permise alle custodie con almeno dodici conventi di diventare province.
Nel 1762, i Riformati raggiunsero il numero di 19.000 membri, affiancandosi ai 17.300 della famiglia cismontana e ai 22.600 della ultramontana.

BIBLIOGRAFIA: L.Bedin, “Santa Maria di Montebello” Vol II, Montebello Vicentino 2018.
IMMAGINE: Ricostruzione dell’Ospizio dei frati Francescani scalzi d’Alcantara (cortesia Luigi Bedin, rielaborazione grafica Umberto Ravagnani, 2025).

Umberto Ravagnani

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LETTERE A MARIA

[427] LETTERE A MARIA
Un enigma affascinante

Non accade certo ogni giorno ciò che capitò al celebre Aleardo Aleardi.1 Solitamente, quando un nome femminile o una figura di donna appaiono nei versi o nella prosa di uno scrittore famoso, la persona coinvolta mantiene un riserbo discreto. Lettori, critici e curiosi, al contrario, si scatenano nella caccia all’identità nascosta, rincorrendo ipotesi e teorie che spesso restano irrisolte. Basti pensare al mistero eterno attorno a Beatrice di Dante, o alle Silvie e Nerine di Leopardi. Ma la storia che riguarda Aleardi è unica nel suo genere e merita di essere raccontata.
Era il 1846 quando il giovane e affascinante conte veronese presentò al censore austriaco2 il suo volume intitolato “Lettere a Maria”. L’opera, un elegante intreccio di prosa poetica, ebbe un successo fulminante. Persino il censore, solitamente severo e distaccato, espresse un entusiasmo incondizionato. Ben presto, le pagine del libro iniziarono a conquistare lettori di ogni genere: giovani donne, patrioti e letterati si lasciarono incantare dalle emozioni che quei versi evocavano.
A Verona, come in altre città, molte donne iniziarono a dichiararsi segrete ispiratrici delle lettere. Una miriade di “Marie” si moltiplicò tra sorrisi e allusioni, ognuna desiderosa di rivendicare un legame speciale con il poeta.
Tra le tante ipotesi che ruotavano intorno al mistero di Maria, una figura spiccava con una certa autorevolezza: Francesca Monti, una donna di eccezionale bellezza e raffinatezza. Nata a Napoli, divenne Baronessa sposando il Barone Hermann di Trieste, uomo d’affari e figura di spicco della società asburgica. La coppia si trasferì a Verona, dove Francesca conquistò l’ammirazione di tutti con il suo portamento elegante e la sua passione per le arti. Non era raro trovarla circondata dai più brillanti esponenti dell’intellettualità dell’epoca, attratti non solo dalla sua intelligenza, ma anche da un fascino che pareva magnetico.
A un certo punto, però, Francesca si ritirò bruscamente dalla scena mondana. Abbandonò la vivacità di Verona per stabilirsi in una villa imponente a Montebello Vicentino, conosciuta attualmente come Villa Miari o Villa Casarotti.3 Questa dimora, situata a mezza costa, domina, ancora oggi, il paesaggio con la sua struttura elegante e, all’epoca del racconto, con dei giardini molto ben curati. Tuttavia, il trasferimento non fu dettato solo dal desiderio di tranquillità. Negli anni in cui la Baronessa vi risiedette, la villa fu utilizzata per ospitare i lavoratori impegnati nella costruzione della ferrovia Milano-Venezia, la celebre Ferdinandea. Questi uomini, spesso stanchi e poco attenti, lasciarono profonde tracce del loro passaggio, costringendo Francesca a organizzare un restauro completo della proprietà una volta terminati i lavori.
Durante il suo ritiro a Montebello, Francesca si dedicò a cause filantropiche, istituendo il primo asilo rurale per l’infanzia nella regione. Questo gesto, insieme alla sua improvvisa scomparsa dai salotti dell’alta società, alimentò voci e supposizioni. Molti iniziarono a credere che fosse lei la famosa Maria, musa ispiratrice delle celebri lettere di Aleardo Aleardi. La sua bellezza, il mistero che la circondava e la connessione con l’ambiente culturale dell’epoca la rendevano una candidata ideale.
Durante una serata in uno dei salotti più rinomati di Brescia, Aleardi annunciò casualmente che la donna che aveva più amato sarebbe arrivata il giorno successivo. L’affermazione scatenò un turbine di curiosità e invidie. Chi era questa donna? Sarebbe stata finalmente svelata la vera Maria?
L’indomani, la città fu in fermento. Nei salotti e lungo le strade, un clima di attesa febbrile aleggiava ovunque. Alcune signore rimasero nascoste dietro le finestre delle loro case, spiando dagli angoli strategici, pronte a scoprire l’identità della misteriosa figura. Infine, in tarda mattinata, Aleardo si fece vedere, passeggiando con calma sotto i portici. Al suo braccio, però, non c’era una nobildonna, né una bellezza leggendaria, ma una vecchina sorridente, avvolta in un semplice scialle. Era la sua balia, colei che gli aveva donato amore e cure nei suoi primi anni di vita. Con questo gesto ironico e affettuoso, Aleardo svelò il suo disinteresse per le rivalità e le vanità che lo circondavano.
La storia di Aleardo Aleardi si intreccia con i tumulti di un’epoca, riflettendo sia la forza della poesia sia le difficoltà della lotta per la libertà. Le sue parole, intrise di passione e impegno, continuano a risuonare come un richiamo al coraggio e alla bellezza, mentre il mistero di Maria rimane un affascinante enigma nel cuore della letteratura italiana.

BIBLIOGRAFIA: – Il quotidiano “Corriere della sera” del 17 febbraio 1927.
– A.Aleardi, LETTERE A MARIA, Venezia, 1846.
NOTE: 1) Il poeta, scrittore e conte Aleardo Aleardi, al secolo Aleardi Gaetano Maria, (assunse più tardi il nome con cui divenne famoso, Aleardo) nacque a Verona il 14 novembre 1812 dal conte Giorgio e da Maria Canali.
2) Dal 1815 al 1866 il Regno Lombardo-Veneto fu una regione amministrativa dell’Impero austriaco.
3) Questi sono i vari passaggi di proprietà della villa: Righi, Zanuso, Hermann, Mocenigo, Miari-Carlotti, Miari, Casarotti, Meneguzzo, Ogwang.
FOTO: Villa Miari in una foto di qualche anno fa (rielaborazione grafica Umberto Ravagnani, 2021).

Umberto Ravagnani

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LA VISPA TERESA

[426] LA VISPA TERESA

Nel caldo agosto del 1876, Giulia figlia ventenne del sindaco di Montebello Vicentino, dottor Giuseppe Pasetti e della marchesa Bianca dei conti Villani, convolò a nozze col fiorentino Giovanni Pelli-Fabbroni di cinque anni più anziano. Non si sa in quale occasione i due giovani si fossero conosciuti. Giulia, nata a Voltabarozzo di Padova, paese di origine della madre, da parecchio tempo si era trasferita e risiedeva con la famiglia a Montebello dove il padre aveva acquistato ed ereditato parecchi fabbricati e terreni.
Entrambi gli sposi avevano in comune l’essere figli di proprietari di estensioni di terra coltivate a vigneto nelle rispettive regioni di residenza. Alla sontuosa cerimonia e successivo banchetto, tenutisi nel palazzo in via Borgolecco di Montebello che già appartenne ai conti Sangiovanni, non mancarono pertanto i vini sia locali che toscani, quasi una sorta di matrimonio anche tra questi nettari d’uva. Infatti Rosalia, la madre di Giovanni, apparteneva alla gloriosa famiglia fiorentina degli Antinori, padroni soprattutto nei paesi di Impruneta e di Greve in Chianti di chilometrici filari di viti votati alla produzione dell’omonimo famoso vino. Molti anni dopo lo sposo, oltre agli impegni politici, diventerà lui pure imprenditore agricolo grazie ai beni ereditati dalla madre.
Il curioso doppio cognome Pelli-Fabbroni vanta un’origine e una storia che merita di essere raccontata.
Tutto cominciò quando a Grosseto il 13 febbraio 1763 nacque Teresa, figlia di Caterina Lazzaretti e del maggiore Alberto Ciamagnini, comandante della locale piazzaforte, allora sotto il dominio di Francesco I° de’ Medici.
In seguito a sfortunate vicende Alberto Ciamagnini cadde in rovina e, quando la figlioletta Teresa aveva soli 6 anni, morì. La moglie Caterina, donna di grande carattere, non si perse d’animo. Trovò in un letterato fiorentino, Marco Lasti, abituale frequentatore di Grosseto, un valido aiutò. Questo signore intercedette presso il Granduca di Toscana e ottenne per la donna e per la figlioletta un’abitazione a Firenze. Sempre grazie a Marco Lasti, Caterina conobbe tale Giuseppe Bencivenni-Pelli, direttore della Galleria degli Uffizi.
Trascorse solo un anno e ad appena 33 anni anche Caterina Lazzaretti rese l’anima a Dio.
Fu così che Giuseppe Bencivenni-Pelli prese sotto la sua protezione, adottandola, la piccola Teresa che crebbe pertanto in un ambiente intellettuale. La vulcanica ragazza non impiegò molto tempo ad erudirsi sia nella lingua italiana, come in quella francese e inglese. La giovane tradì però la fiducia del padre adottivo e a 18 anni sottoscrisse un matrimonio segreto con un semplice tessitore di seta. Non era quello che avrebbe voluto Giuseppe Bencivenni-Pelli che avrebbe invece preferito che la sua figlia adottiva andasse in sposa a qualche uomo di ottimo profilo culturale. La giovane Teresa pressata dal padre lo assecondò, entrando nel Convento delle “Mantellate” giusto il periodo di tempo necessario affinché, dopo una causa civile, la promessa di matrimonio fosse legalmente annullata.
Nel 1782 Teresa Ciamagnini Pelli (aveva frattanto preso anche il cognome del suo adottatore) andò in sposa a Giovanni Fabbroni, agronomo, naturalista direttore del Reale Museo di Fisica e Storia Naturale di Firenze. In quel tempo Teresa fu descritta come una affascinante ragazza dagli occhi azzurri e dai lunghi capelli biondi: una vera bellezza nordica unita a quella mediterranea. Oltre alla grazia vantava una notevole cultura umanistica attirando l’attenzione, l’ammirazione e la presenza, presso il suo nobile salotto, di personaggi di alto spessore culturale. Dopo questo matrimonio il cognome di Teresa diventò Ciamagnini Pelli-Fabbroni.
Da questa unione, il 22 settembre 1783, nacque il primogenito Pietro Leopoldo, così chiamato in onore del Granduca di Toscana. Questi due nomi al pari di Giovanni, Vincenzo, Giuseppe e Luigi vennero imposti nel 1851 al pronipote che sposò a Montebello Giulia Pasetti. Pietro Leopoldo fu l’unico dei tre figli di Teresa a sopravvivere dal momento che per gli altri due la vita non durò che poche ore. Più tardi conseguirà la laurea in giurisprudenza e diventerà magistrato alla Procura di Firenze in età napoleonica, e assumerà la carica di Segretario della Consulta durante la Restaurazione successiva al 1815.
Frattanto, nel 1808, in piena occupazione napoleonica, morì Giuseppe Bencivenni-Pelli padre adottivo di Teresa.
Due anni dopo la colta Teresa seguì il marito Giovanni Fabbroni a Parigi, in conseguenza della nomina di quest’ultimo a Direttore dei Ponti e della Strade per il Dipartimento Italiano. Il soggiorno in Francia durò solo alcuni mesi e nel 1811 Teresa fece rientro in Italia. Il 1° ottobre di quello stesso anno, all’età di 48 primavere venne a mancare nella sua villa di campagna fuori Firenze e fu sepolta assieme al padre adottivo nel Duomo della città gigliata.
Tutto lascia credere che proprio successivamente alla scomparsa di Giuseppe Bencivenni-Pelli e di sua figlia Teresa il cognome sia diventato solo Pelli-Fabbroni. Indubbiamente Giovanni Pelli-Fabbroni, nel chiamare Giuseppe un figlio, volle così ricordare il suocero defunto. Quello stesso Giuseppe il cui figlio Giovanni nel 1876 sposò a Montebello Giulia Pasetti.
Giovanni Pelli-Fabbroni fu un imprenditore sempre molto impegnato anche politicamente, e ricoprì la carica di presidente della Provincia di Firenze.
Nel 1915, grande interventista dell’Italia in guerra, all’età di 64 anni partecipò come ufficiale alla Prima Guerra Mondiale. Per lui fu un’occasione per ritornare in quel Veneto dove aveva preso moglie. E guadagnò pure una medaglia d’argento al Valor Militare con la seguente motivazione: “in 10 giorni di battaglia sul Piave ovunque più ferveva la mischia accorse fulgido esempio di fede e di virtù militare a portare la sua parola di apostolo e infondere nei combattenti la volontà di resistere e vincere”.
A guerra finita, nel 1922 entrò nel Partito Fascista e vi rimase fino alla morte che lo colse il 19 febbraio 1935.
Dal suo matrimonio con Giulia Pasetti nacque nel 1877 una figlia alla quale fu imposto il nome Teresa (Maria Teresa) in onore della grande bisnonna.
Maria Teresa Pelli-Fabbroni andò in sposa al conte Lodovico Miari e visse quasi 93 anni (1970).

Ottorino Gianesato

FOTO: Giovanni Pelli-Fabbroni (elaborazione grafica Umberto Ravagnani).

Umberto Ravagnani
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IL RITRATTO STRAPPATO

[425] IL RITRATTO STRAPPATO
Un gesto frainteso

A Montebello Vicentino, si consumò nel 1880 un episodio destinato a suscitare grande clamore e a porre sotto i riflettori il delicato equilibrio tra autorità scolastiche e amministrative. La protagonista di questa vicenda fu una giovane maestra, dedita al suo compito educativo e rispettata nella comunità, che si ritrovò coinvolta in un caso tanto curioso quanto emblematico dei tempi.
La scuola elementare di Montebello, inaugurata nel 1869, rappresentava una delle prime istituzioni educative, se non la prima, create nel Veneto dopo l’Unità d’Italia. In un paese ancora fortemente ancorato alle tradizioni rurali, l’istruzione assumeva un ruolo fondamentale per lo sviluppo culturale e sociale delle nuove generazioni. La Legge Casati1, promulgata nel 1859 e poi estesa a tutta la nazione, aveva introdotto l’obbligo scolastico e affidato ai comuni la gestione delle scuole primarie. Tuttavia, l’applicazione della legge non fu semplice: le difficoltà economiche e la carenza di insegnanti qualificati rappresentavano ostacoli significativi, specialmente nei piccoli centri come Montebello.
Nonostante le sfide, la scuola di Montebello riuscì a divenire un punto di riferimento per la comunità locale. Gli insegnanti, oltre a impartire le nozioni di base, avevano il compito di trasmettere valori morali e civici, contribuendo così alla costruzione di una nuova identità nazionale. Tra questi educatori spiccava la giovane maestra protagonista della nostra storia, nota per il suo impegno e la sua dedizione.2
Tutto ebbe inizio durante una normale giornata di scuola, quando la maestra notò alcune sue alunne discutere animatamente davanti a un ritratto appeso in aula. L’immagine raffigurava una donna abbigliata in modo che, secondo le bambine, non rappresentava un modello di modestia. Preoccupata che tale ritratto potesse distogliere le sue allieve dai principi educativi che cercava di trasmettere, la maestra decise di rimuoverlo e, senza pensarci troppo, lo strappò.
Solo in un secondo momento si scoprì che l’immagine in questione era un ritratto della Regina d’Italia Margherita di Savoia. La notizia si diffuse rapidamente e suscitò grande scalpore. Alcuni giornali locali riportarono il fatto con toni accesi, denunciando il gesto come un oltraggio alla sovrana. In breve tempo, l’episodio divenne oggetto di accese discussioni pubbliche e politiche.
Le autorità locali, pressate dall’eco mediatico della vicenda, decisero di intervenire. Il Prefetto, ritenendo il gesto della maestra inaccettabile, ne decretò la destituzione dall’incarico. Questa decisione suscitò una reazione immediata nella comunità di Montebello, dove la maestra era molto stimata. Le famiglie degli alunni, riconoscendo il valore del suo operato, si mobilitarono per chiederne la reintegrazione.
Parallelamente, il giornale locale « Il Berico » prese le difese della maestra. Sfogliando attentamente gli articoli della Legge Casati, i redattori scoprirono che il licenziamento di un insegnante poteva essere disposto solo dal Consiglio Scolastico Provinciale, e non dal Prefetto. Forte di questa scoperta, il giornale denunciò l’irregolarità del provvedimento e chiese che fosse annullato.
Per comprendere meglio l’importanza di questa vicenda, è utile analizzare il contesto normativo e sociale dell’epoca. La Legge Casati, considerata la prima grande riforma del sistema educativo italiano, aveva l’obiettivo di garantire un’istruzione di base a tutti i bambini. Essa stabiliva l’obbligatorietà della scuola elementare per almeno due anni e affidava ai comuni la responsabilità di istituire e gestire le scuole. Nonostante le buone intenzioni, l’attuazione della legge incontrò numerose difficoltà, soprattutto nelle aree rurali, dove spesso mancavano le risorse necessarie per mantenere le strutture scolastiche.
Gli insegnanti, mal pagati e spesso costretti a lavorare in condizioni difficili, svolgevano un ruolo fondamentale nella società. Oltre a impartire le nozioni scolastiche, dovevano educare i bambini ai valori morali e civici, contribuendo così alla costruzione di una nuova identità nazionale. La figura della maestra di Montebello incarnava perfettamente questo ideale: una donna determinata, pronta a svolgere il proprio compito con serietà e passione, nonostante le difficoltà.
Grazie all’intervento del giornale locale e al sostegno della comunità, il caso venne riesaminato dal Consiglio Scolastico Provinciale, che il 10 settembre 1880 deliberò a favore della maestra. La decisione di riammetterla al suo posto rappresentò una vittoria non solo per l’insegnante, ma anche per l’intera comunità di Montebello, che vide riconosciuti i propri diritti.
Questo episodio, seppur circoscritto a una piccola realtà locale, evidenziò alcune problematiche fondamentali del sistema scolastico postunitario: il difficile equilibrio tra autorità centrali e locali, la necessità di garantire il rispetto delle leggi e l’importanza del ruolo degli insegnanti nella società.
La storia della maestra di Montebello ci offre uno spaccato significativo della vita scolastica nel Veneto di quell’epoca. In un periodo di grandi cambiamenti politici e sociali, l’istruzione rappresentava uno degli strumenti principali per la costruzione di una nuova identità nazionale. La vicenda, con il suo lieto fine, testimonia la determinazione di una comunità a difendere i propri diritti e il valore dell’educazione come strumento di emancipazione e progresso. In un tempo in cui la scuola era ancora un privilegio per pochi e la strada verso un’istruzione universale era tutta da costruire, episodi come quello di Montebello ci ricordano quanto fosse arduo, ma al tempo stesso fondamentale, il cammino intrapreso.

BIBLIOGRAFIA: – G.MANTESE, Memorie storiche della Chiesa vicentina, vol. V, Vicenza, 1954.
– “IL BERICO“, quotidiano della Provincia di Vicenza, 1880.
NOTE: 1) Con la legge Casati l’istruzione elementare era carico dei comuni ed era articolata in due cicli: un ciclo inferiore biennale, obbligatorio e gratuito, istituito nei luoghi dove ci fossero almeno cinquanta alunni in età di frequenza, e un ciclo superiore, anch’esso biennale, presente solo nei comuni sede di istituti secondari o con popolazione superiore a 4000 abitanti.
2) Nè il giornale “Il Berico“, né il Mantese riportano il nome della protagonista della nostra storia ma si tratta, molto probabilmente, della maestra Giulia Brenna, titolare della II e III classe Elementare femminile nell’anno scolastico 1879-80, o della sua collega Margherita Parise titolare della I, II e III classe Elementare femminile nell’anno scolastico 1880-81, a Montebello.
FOTO: Ritratto di Margherita di Savoia Genova (1851-1926), Regina d’Italia (1878-1900) e moglie del Re d’Italia, Umberto I (rielaborazione grafica Umberto Ravagnani).

Umberto Ravagnani

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UN SECOLO DI “MURARI”

[424] UN SECOLO DI “MURARI”

Verso la fine dell’Ottocento il muratore Luigi Timinello partì da Montebello e se ne andò a lavorare in Austria. Nel lasciare il paese natale l’emigrante ricordò, sicuramente con orgoglio misto a rammarico, la storia sentita raccontare spesso dai genitori, del suo avo Gio.Batta che, nel secolo precedente, intraprese il suo stesso mestiere certamente con più fortuna di lui.
Purtroppo era risaputo che quello del muratore era un lavoro che, anche in presenza di opportunità di praticarlo, non garantiva comunque a chi lo svolgeva sufficienti entrate per il mantenimento della famiglia, soprattutto durante il periodo invernale, allorché per integrare i magri guadagni bisognava necessariamente coltivare, freddo permettendo, la poca terra posseduta.
Gio.Batta Timinello, avo di Luigi, probabilmente arrivò a Montebello nei primi decenni del Settecento. Era un valente ed esperto muratore, dotato anche di altre capacità, che ben presto, nel 1729 e 1736, lo portarono ad entrare nel novero dei consiglieri comunali. La sua fama di provetto muratore era accresciuta nel 1728 appaltando dal comune di Lonigo, nella contrà di Almisano, la costruzione di un nuovo ponte sul torrente Acquetta con l’ausilio del compaesano Domenico Tibaldo col quale costituì un valido sodalizio. Per realizzare quest’opera furono trasportati nel cantiere ben 60 carri di pietre, per la maggior parte provenienti da una cava della Selva, nonché 1200 mattoni. In quel periodo, soprattutto in paese, le occasioni di lavoro per gli edili non mancavano. La presenza a Montebello di alcuni ponti e di due caserme di soldati che abbisognavano frequentemente di importanti manutenzioni, se non rifacimenti totali, offriva a muratori e manovali possibilità di impiego sicuro in aggiunta ad altre opere da eseguire un po’ dappertutto. Così già all’inizio del secolo un altro muratore, Benedetto Pedezze, ebbe il suo bel da fare sia nella caserma dei “cappelletti” dietro al municipio, sia in quella poco distante della cavalleria ubicata nella contrà della Centa. In questi edifici o quartieri. ad uso militare, furono applicate le dovute malte dove latitavano, ripassati i tetti, riparati i muri di cinta, e rifatto il selciato dei cortili. Sempre in quel tempo, un altro muratore, Giacomo Baschiera, intervenne pesantemente negli edifici del marchese Malaspina situati presso il ponte sul torrente Chiampo. Pertanto, fin dal primo decennio del settecento, Montebello fu spesso sede di un grandissimo e diffuso cantiere.
Spesso l’esperienza dei muratori più anziani era richiesta nelle valutazioni degli immobili, Ecco allora che alcuni di loro, Gio.Batta Camera, Gio.Maria Guarda e Bortolo Collalto, si districarono abilmente nel farle.
Non da meno un altro membro di una delle numerose famiglie dei Guarda, Angelo, in compagnia del collega e “mistro muraro” Zuanne Righetto, si impegnò abilmente a valutare, finestra per finestra, muro per muro una casa nella contrà della Mi(e)ra e la sunnominata “premiata ditta” Gio.Batta Timinello e Domenico Tibaldo ebbe l’onere e l’onore di essere incaricata a fare altrettanto alla prestigiosa casa dominicale dei conti Sangiovanni posta in contrà Borgolecco. Grazie ai discreti guadagni Domenico Tibaldo detto “Faggiana, nel 1742 si costruì una nuova casetta alla Selva nella contrà dei Giacomoni proprio sui terreni avuti a livello dai conti Lodovico e fratelli Sangiovanni.
L’anno seguente il comune di Montebello ordinò al succitato Zuanne Righetto e a Francesco Pizzardini di costruire un pozzo dirimpetto alla Prepositura “che mantenghi acque sufficienti al pubblico beneficio”.
In quegli anni, Francesco Pizzardini completò pure i lavori di ristrutturazione e manutenzione della sacrestia e della casetta adiacente “intavellandola”, applicando le malte sui muri che ne erano privi, rimettendo varie pietre e facendo la nuova porta che dalla stessa sacrestia portava alla chiesa parrocchiale.
Come la famiglia dei Guarda anche quella dei Tibaldo annoverò numerosi muratori nonché falegnami tra i suoi componenti. Francesco Tibaldo nel gennaio del 1761 fu protagonista di un fatto insolito ai giorni nostri. Dopo aver restaurato in estate la casa di Gio.Batta Castegnaro ricevette da quest’ultimo una comunicazione, registrata dal notaio Domenico Cenzatti, con la quale veniva avvisato che non sarebbe stato pagato prima del prossimo marzo. Questa informativa era senz’altro figlia dei numerosi solleciti di pagamento andati a vuoto. Pertanto con questo documento notarile l’esecutore dei lavori fu autorizzato a levare i nuovi coppi utilizzati per rifare il tetto della casa. Non è dato a sapere se Francesco Tibaldo arrivò a questa estrema soluzione considerando che sarebbe stato pagato comunque di lì a due mesi.
Il Settecento si chiudeva con la costruzione dei nuovi ponti sul torrente Chiampo del “Marchese” e della “Fracancana”. Ma la madre di tutte le opere edilizie fu l’edificazione della nuova chiesa parrocchiale di santa Maria di Montebello che avrebbe dato lavoro a numerose maestranze. Nel 1790 l’impresario edile Vicenzo Squarzina fu incaricato di demolire la vecchia chiesa e quindi edificarne una nuova da consegnare al coperto entro la fine del 1796.
Conosciamo i nomi di tutti i capi famiglia muratori che furono censiti nel 1789, ma non conosciamo quanti altri lavoratori edili appartenessero a questi nuclei. Si suppone che gran parte di questi presero parte alla realizzazione del nuovo e maestoso edificio sacro, qualche volta anche gratuitamente:
Antonio Guarda fu Gio.Maria, Pietro Pretto fu Zuanne, Gio.Maria Guarda fu Angelo, Angelo Savegnago fu Zuanne, Andrea Frighetto fu Ambrosio, Francesco Pizzardini fu Battista, Antonio Rizzi fu Lorenzo, Zuanne Pretto fu Pietro, Nicola Guarda fu Angelo, Battista e Francesco Collalto fu Bortolo, Valentin Tibaldo fu Domenico, Bortolo e Gio.Maria Pizzardini fu Andrea, Iseppo Collalto fu Domenico.
Non è noto se in quel periodo il sottocitato lapidario detto popolare fosse già sulla bocca della gente comune:
le cese le xe stà fatte co le besteme dei murari, co le ciacole dei siori e co i schei dei poareti”.

Ottorino Gianesato

FOTO: 1872 – Costruzione della facciata della Chiesa di Santa Maria di Montebello. Da notare l’assoluta mancanza di sicurezze nel lavoro di questi “murari” dell’epoca. (Archivio foto Tino Crosara, elaborazione grafica Umberto Ravagnani).

Umberto Ravagnani
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RECLUTE E SOLDATI IN FUGA

[423] RECLUTE E SOLDATI IN FUGA

In un precedente articolo è stato raccontato un episodio avvenuto nel 1770 che dimostra quanto i giovani coscritti odiassero la leva militare della Repubblica di Venezia, a tal punto da darsi alla macchia durante il loro trasferimento verso le sedi dei reggimenti. Questa avversione per la divisa non mutò nemmeno dopo la caduta della “Serenissima” e la successiva occupazione attuata nei primi anni dell’Ottocento dai francesi comandati da Napoleone. Infatti, fin dall’inizio, l’introduzione della leva obbligatoria da parte degli occupanti d’oltralpe, non garantì il reclutamento di un sufficiente numero di soldati per la defezione di almeno un 30% di giovani. La lontananza dalla propria famiglia, lunga anche qualche anno, ed il pericolo che le giovani leve correvano in giro per l’Europa impiegati nelle varie campagne militari che Napoleone intraprese, erano un deterrente che spesso li spinse a disertare. A proposito della pericolosità, un documento giacente presso l’Archivio Parrocchiale di Santa Maria di Montebello narra che un soldato montebellano morì in Sassonia nella battaglia di Lipsia nel 1813 colpito da una palla di cannone. Per contro alcuni fortunati appartenenti alle famiglie più abbienti evitarono il reclutamento dietro il pagamento di cospicue somme di denaro.
Le diserzioni più consistenti avvennero, come sopra enunciato, principalmente lungo le grandi vie di comunicazione che portavano alle caserme, a volte con le rischiose complicità delle popolazioni rurali che appoggiarono fattivamente la fuga sia delle reclute che dei soldati. Inoltre le amministrazioni locali non si preoccuparono più di tanto di ricercarli al punto che molti fuggitivi tornarono indisturbati a lavorare nelle proprie case nei paesi di origine. In alcuni casi dei gruppi di disertori diedero vita a delle vere e proprie bande armate dedite al brigantaggio che terrorizzarono la popolazione.
Nel 1807, il palazzo dei conti Sangiovanni, nella contrada Borgolecco di Montebello, era da qualche anno sede di un manipolo di militari francesi appartenente alla Reale Gendarmeria. In questo luogo, nel mese di giugno di quell’anno si portarono il dottore chirurgo Giuseppe Tecchio e lo speziale del paese Bortolo Nardi per testimoniare e riconoscere il corpo senza vita di un coscritto destinato al 1° Reggimento Italiano di Fanteria Leggera. Questo sfortunato giovanotto, proveniente con un convoglio da Verona, aveva tentato la fuga, ma inutilmente poiché i soldati di scorta non gli diedero scampo colpendolo mortalmente con alcune archibugiate.
I due testimoni montebellani sottoscrissero la seguente minuziosa descrizione del malcapitato: “un uomo dall’apparente anni età di 22 anni, ciglia e capelli neri, occhi castani, naso ordinario, bocca proporzionata, mento tondo, barba nera, statura media. (Vestito) con una camicia di tela di canevo (canapa) tutta intrisa di sangue, giacchetta di tela di canevo blu, camisola di tela di canevo a righe rosse e bianche davanti e simili bianche e blu nella parte opposta, braghe di tela di canevo blu, calze di bombace bianco.
Un allegato esibito dalla Municipalità locale, datato 22 marzo 1807, firmato da don Luigi Ferrari priore e legalizzato dagli Amministratori Municipali: Artioli facente funzioni di Presidente, Carlo Vicenzi savio, Brighenti segretario della Comune di Quistelli, fa riconoscere l’interfetto (l’ucciso) individuo per Piero figlio di Lorenzo Gelati e di Annunziata Cantelle giugali (coniugi) abitanti in Quistelli”. (Quistello in provincia di Mantova).
In un altro episodio accaduto verso la fine di agosto del 1811, Innocente Doria, Ufficiale dello Stato Civile di Montebello, fece una triste escursione in località Campagnola di Agugliana per riconoscere il corpo senza vita di tale Martino Zonato che il giorno precedente era spirato, “dell’età di 21 anni, di professione disertore”.
In compagnia di Innocente Doria, il padre della vittima Santo con Gio.Batta un altro figlio ventiquattrenne, entrambi abitanti a Montebello, ma originari di Chiampo dove anche Martino era nato. Il documento consultato non fa menzione di come avesse cessato di vivere, se colpito dai gendarmi che gli avevano dato la caccia, o se in seguito a ferite o malattie contratte durante la latitanza.
Evidentemente il povero Martino, tornato a casa in licenza, non era più rientrato nella sua caserma a Pavia rendendosi uccel di bosco sulle colline che conosceva bene e che considerava luogo sicuro. Però, a differenza di altri fuggitivi non aveva trovato o non erano stati sufficienti i sostegni avuti da parte della locale popolazione rurale. Non è da escludere che pure lui facesse parte di qualche nugolo di disertori dediti al saccheggio e questo spiegherebbe la mancata assistenza degli abitanti del luogo.
A proposito dei disertori, don Tullio Cavazza che fece il suo ingresso nella Chiesa parrocchiale di Selva-Agugliana il 16 gennaio 1921(era nato a Locara il 6 giugno 1879) copiò alcune memorie trovate in canonica:
“narrasi che essendosi resi latitanti molti disertori al principio del 19° secolo, ai quali non avea arriso il comando del Governo Francese di andare a farsi ammazzare per la gloria di Napoleone il Grande, e commettendo essi delle violenze verso la forza pubblica, Napoleone passando lungo la via Veronese da Montebello a S. Bonifacio, domandasse del nome del paese di Selva le cui abitazioni si veggono di là benissimo. E avuto in risposta che era Selva, quasi spaventato lui stesso il vincitor di Marengo, dicesse frettolosamente: passa, passa!
La par cosa come ognun vede, inventata da qualche finitimo poco amante del paese, o dalla vana gloria di qualche uomo”.

Ottorino Gianesato

IMMAGINE: La Campagnola all’Agugliana di Montebello (ricostruzione di fantasia Umberto Ravagnani).

Umberto Ravagnani
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UN NATALE DI SPERANZA

[422] UN NATALE DI SPERANZA
storie dalle trincee della Grande Guerra

Durante la Grande Guerra del 1915-18, l’Altopiano del Veneto, dalla Val Lagarina al fiume Brenta, fu uno dei fronti più cruenti e disperati. Le trincee scavate nelle montagne divennero rifugio e prigione per soldati giunti da ogni angolo d’Europa: italiani, molti dei quali di Montebello, francesi, inglesi, americani e volontari mossi dal desiderio di soccorrere i feriti. Dall’altro lato, si fronteggiavano austro-ungarici, croati, sloveni e altre nazionalità unite nella lotta. Il Pasubio, il Novegno, il Cengio e il Lemerle furono testimoni silenziosi di quell’immenso dolore, portando ancora oggi le cicatrici della guerra. Trincee abbandonate, crateri spalancati e ossari che sussurrano storie di vite spezzate si ergono come moniti senza tempo. In questi luoghi sacri giacciono migliaia di uomini, la cui memoria non deve svanire. Ricordare significa non solo rendere omaggio ai caduti, ma anche riflettere profondamente sul valore eterno della pace.
Questo articolo parla del Natale, ma di un Natale diverso, e lo scopo è quello di invitare le nuove generazioni, ma non solo, a scoprire e comprendere la tragedia che si è consumata in queste terre, affinché la storia non si ripeta.
Il Natale, spesso associato a calore e serenità, aveva un sapore completamente diverso per i soldati italiani impegnati nei duri inverni della Prima Guerra Mondiale, tra il 1915 e il 1918. Sulle montagne del Veneto, lontani dalle loro famiglie, questi uomini si trovavano ad affrontare non solo il nemico, ma anche le difficoltà di un clima ostile e di una vita fatta di sacrifici e privazioni. Tuttavia, anche in mezzo a tanto dolore, il Natale portava con sé momenti di conforto e umanità.
Nelle trincee gelate del fronte italiano, il lavoro non si fermava mai. I soldati, coperti da mantelle pesanti e passamontagna, spalavano la neve per tenere liberi i sentieri e costruivano ripari per resistere al gelo pungente. I muli, carichi di munizioni e viveri, avanzavano con difficoltà su terreni ghiacciati, mentre i rumori dei colpi nemici rompevano il silenzio della neve.
Ogni esplosione era un promemoria costante del pericolo, ma i soldati continuavano a lottare, sorretti dal pensiero delle loro famiglie lontane e dalla promessa di tornare a casa un giorno. Ogni azione, per quanto semplice, rappresentava un atto di resistenza contro le condizioni spietate della guerra.
Tra le poche pause concesse, la celebrazione della Messa natalizia era un evento di grande significato. Il cappellano militare, spesso visibilmente affaticato dal cammino nella neve, portava con sé una cassetta contenente il necessario per allestire un altare di fortuna. Una roccia piatta diventava il suo pulpito, adornata con una tovaglia bianca, un calice e due lumi accesi da un vecchio soldato.
I fanti si raccoglievano attorno, inginocchiati sulla neve o seduti su rocce gelate, ascoltando in silenzio le parole del sacerdote. I suoi discorsi parlavano di fede, sacrificio e speranza, evocando immagini di casa e dei cari che pregavano per loro. Era un momento carico di emozione, in cui molti si ritrovavano con gli occhi umidi, lasciando che la forza della comunità li confortasse, anche sotto il costante rischio dei colpi nemici.
Dopo la Messa, uno dei momenti più attesi era l’arrivo della posta e dei pacchi natalizi. Trasportati da muli attraverso sentieri innevati, questi doni portavano un pezzo di casa direttamente in trincea. Le famiglie e le associazioni caritatevoli avevano riempito i pacchi con oggetti semplici ma preziosi: calze di lana, sciarpe, cioccolata, sigari, libri e carta da lettere. Nessuno veniva dimenticato, e ogni soldato riceveva qualcosa.
Quegli oggetti avevano un valore che andava oltre la loro utilità. Erano un collegamento con una vita che sembrava lontana, un promemoria di amore e solidarietà. Anche un semplice passamontagna, capace di proteggere dal gelo, diventava un simbolo del legame indissolubile con chi li attendeva a casa.
Il pasto, di solito monotono e scarno, assumeva un sapore diverso nel giorno di Natale. La razione quotidiana si arricchiva di carne, pasta, una fetta di pane in più e un bicchiere di vino. Come tocco finale, una manciata di fichi secchi o un goccio di grappa rendevano il pasto un po’ più festoso.
Questi piccoli gesti non cancellavano certo le difficoltà, ma offrivano ai soldati un senso di normalità. Per un momento, potevano immaginare di essere seduti con le loro famiglie attorno a una tavola imbandita, lontani dalla durezza del fronte.
Il Natale in trincea non era solo una pausa dalla guerra, ma un’occasione per rafforzare i legami tra i soldati. Le risate attorno a un bicchiere di vino, le lettere lette con attenzione sotto la luce tremolante delle lanterne e le storie condivise aiutavano a costruire un senso di comunità. Era un antidoto alla solitudine e alla paura, un momento in cui il cameratismo diventava una forza potente contro le avversità.
Anche sapendo che la guerra sarebbe continuata dopo quel giorno, i soldati trovavano nel Natale un motivo per andare avanti. Era un momento di tregua emotiva, un’occasione per ritrovare speranza e forza.
A distanza di oltre un secolo, quei Natali passati in trincea restano una testimonianza di coraggio e determinazione. Raccontano storie di uomini che, nonostante le difficoltà, riuscivano a trovare conforto nei piccoli gesti e a mantenere viva la loro umanità. Sono esempi che ci ispirano ancora oggi, ricordandoci l’importanza della solidarietà e della speranza anche nei momenti più bui.
«Ovunque si combatte – ha detto Papa Francesco – le popolazioni sono sfinite, sono stanche della guerra, che come sempre è inutile e inconcludente, e porterà solo morte e distruzione, e non porterà mai la soluzione dei problemi. La guerra è una sconfitta, sempre!»

Umberto Ravagnani

Vogliamo qui richiamare alla memoria i montebellani caduti durante la Grande Guerra e commemorati sul pregevole Monumento di Montebello Vicentino, opera di Giuseppe Zanetti.

APRI ...

(Dal libro di Ottorino Gianesato Montebello e i suoi caduti nella guerra 1915-18).

BIBLIOGRAFIA:
– M.Rigoni Stern, 1915-1918 La guerra sugli Altipiani, (a cura di), 2000.
– V.Pastore, Cara mamma, 2008.
– O.Gianesato, Montebello e i suoi caduti nella guerra 1915-18, 2014.

FOTO:
1) Alcuni soldati in trincea festeggiano il Natale (ricostruzione di fantasia dell’episodio raccontato nell’articolo a cura di Umberto Ravagnani).
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DON EUGENIO XOMPERO

[421] DON EUGENIO XOMPERO
Una vita al servizio della gente e della fede

Nel novembre 2024, Nogarole Vicentino ha celebrato i sessant’anni di sacerdozio di Don Eugenio Xompero con una serie di eventi che hanno coinvolto tutta la comunità. Tra i momenti più emozionanti, l’esibizione della compagnia teatrale “I Teatranti del Castello” di Montebello Vicentino  con la commedia “La fortuna si diverte”, un omaggio al parroco che aveva lasciato un segno indelebile anche nella loro comunità.
Nonostante gli anni, Don Eugenio conserva lo spirito e l’energia di un giovane sacerdote. “Visito le famiglie come facevo appena uscito dal seminario” dice con un sorriso. La sua dedizione instancabile è il segreto del suo legame profondo con la gente.
Tra le verdi colline del Veneto, dove le tradizioni antiche e la fede fervente si intrecciano, il nome di Don Eugenio Xompero è sinonimo di dedizione, umanità e amore per la comunità. A Nogarole Vicentino, dove vive e opera dal 1991, Don Eugenio è molto più di un parroco: è una guida, un confidente e un esempio di come il ministero sacerdotale possa essere vissuto con umiltà e passione.
Nel novembre 2024, il borgo ha celebrato i suoi sessant’anni di sacerdozio, un traguardo che racconta la storia di un uomo che ha scelto di dedicare ogni giorno della sua vita al servizio degli altri. Questa è la storia di Don Eugenio, una figura che ha saputo intrecciare la sua fede con la quotidianità delle comunità montane del Veneto.
Don Eugenio nacque nel 1939 a San Pietro Mussolino, un piccolo paese nella verde valle formata dal torrente Chiampo, nell’alto Vicentino. Cresciuto in una famiglia profondamente religiosa, scherza spesso ricordando come la loro casa fosse chiamata “il Vaticano” per l’atmosfera di preghiera e devozione che la permeava. Ma la scintilla della sua vocazione non nacque solo in famiglia.
Luglio 1944: la Seconda Guerra Mondiale stava lasciando ferite profonde in tutta Europa, e anche la sua comunità non fu risparmiata. Don Luigi Bevilacqua, un sacerdote noto per il suo coraggio, fu assassinato dai nazifascisti e la sua chiesa data alle fiamme. Pochi mesi prima, Eugenio aveva incontrato Don Luigi in canonica. “Mi chiese cosa volessi fare da grande” ricorda Don Eugenio. “Io contavo i bottoni della sua veste e dissi: Voglio fare quello che fai tu”. Quel desiderio innocente segnò l’inizio di un percorso che avrebbe portato Eugenio all’ordinazione sacerdotale vent’anni dopo, il 15 luglio 1964, nella stessa chiesa ricostruita.
Dopo la sua ordinazione, Don Eugenio iniziò il suo ministero a Novale di Valdagno, dove rimase fino al 1971. Qui, in una comunità operaia, dimostrò subito il suo approccio pratico e umano alla vita pastorale. Una delle storie più celebri di quegli anni riflette il suo carattere: “Una signora anziana mi chiamò per benedire i ratti che stavano infestando una gabbia di conigli. Io andai e vidi che nella rete c’era un buco grande come la mia mano, allora le dissi: io i ratti li benedico, ma ci metta una rete nuova!”.
Dal 1971 al 1977, Don Eugenio prestò servizio nei Ferrovieri di Vicenza, poi a Montebello fino al 1984 e infine a Chiampo fino al 1991. In ogni comunità, lasciò un’impronta indelebile, costruendo relazioni autentiche e affrontando le sfide con spirito e dedizione.
A Montebello, Don Eugenio fu particolarmente coinvolto nel Carnevale, contribuendo a renderlo un evento sempre più partecipato e ricco di carri allegorici. Fu anche il tempo di un’avventura speciale con gli scout, guidata con l’entusiasmo e la passione che contraddistinguono il suo approccio ai giovani.
La storia dello scoutismo a Montebello ebbe inizio nei primi anni ’80, quando un gruppo di giovani, pieni di entusiasmo ma senza esperienza, si riuniva in canonica con Don Eugenio Xompero. Cappellano dal 1977, Don Eugenio si rivelò una guida illuminata: la sua capacità di entrare in sintonia con i ragazzi e la sua energia contagiosa furono determinanti nel dare forma a un progetto duraturo. Grazie alla sua dedizione, nel 1983 nacque ufficialmente la Comunità Capi, consolidando l’adesione all’associazione. Il gruppo crebbe rapidamente, sia nel metodo che nella collaborazione con le famiglie. Figure chiave come Teresa Bressan e Battista Zerbato, i primi Capigruppo, contribuirono con passione a superare le sfide iniziali.
Oggi, il percorso del gruppo testimonia il valore di quel lavoro collettivo e l’impatto di Don Eugenio, pilastro di sostegno e ispirazione. Il suo esempio rimane indelebile.
Nel 1991, Don Eugenio venne nominato parroco di Nogarole Vicentino, un borgo montano dove il tempo sembra scorrere al ritmo della natura. Per 33 anni, Don Eugenio ha condiviso la vita di questa comunità con una dedizione che ha trasformato la parrocchia in un vero punto di riferimento spirituale e umano.
Abbiamo fatto grandi lavori per migliorare le strutture della parrocchia” racconta Don Eugenio, “ma la cosa più importante è ascoltare la gente, comprendere le loro fatiche e portare loro speranza.” Questo approccio lo ha reso una figura amata e rispettata, un punto fermo per una comunità che spesso affronta le difficoltà con una resilienza straordinaria. Tra le iniziative più significative di Don Eugenio a Nogarole, ci sono la fondazione di un gruppo scout, i campeggi estivi per giovani e famiglie e la cura della musica liturgica. Ogni attività, pensata per rafforzare il senso di comunità, è stata guidata dalla sua convinzione che la fede debba essere vissuta come un’esperienza condivisa e gioiosa.
Essere parroco in un borgo montano come Nogarole significa affrontare sfide uniche. Le comunità di montagna, spesso isolate e con risorse limitate, richiedono un approccio pastorale fatto di vicinanza e comprensione. Don Eugenio ha abbracciato queste sfide con entusiasmo, vedendo nel suo ruolo un’opportunità per essere una presenza rassicurante e costante.
Durante gli inverni rigidi, Don Eugenio non esitava a visitare le famiglie più isolate, portando conforto e parole di speranza. Le processioni all’aperto e le celebrazioni speciali divennero occasioni per rafforzare i legami tra i parrocchiani, mentre la sua predicazione, sempre semplice e diretta, arrivava al cuore di tutti.
Un momento speciale del suo ministero fu la visita del cardinale Camillo Ruini, che accettò l’invito di Don Eugenio a visitare Nogarole. Quando il cardinale gli propose l’incarico di Segretario a Roma, Don Eugenio rispose con la sua tipica schiettezza: “Lasciatemi respirare l’aria e godere il sole, altrimenti in ufficio faccio la muffa!”
La storia di Don Eugenio Xompero è un esempio di come la fede, vissuta con semplicità e autenticità, possa trasformare una comunità. La sua capacità di ascoltare, consolare e ispirare ha lasciato un’impronta che durerà per generazioni.
Guai a chi ce lo tocca” dicono i parrocchiani di Nogarole, riflettendo l’affetto e la gratitudine per un uomo che ha dedicato tutta la sua vita agli altri. Con il suo spirito pratico e la sua umanità, Don Eugenio ha dimostrato che la fede può essere una forza straordinaria per unire e trasformare le comunità.
Mentre si avvicina al suo 85° compleanno, la sua eredità è già scolpita nei cuori di chiunque lo abbia conosciuto. Il suo esempio continuerà a ispirare, ricordandoci che la vera grandezza si trova nella semplicità di servire con amore.

Umberto Ravagnani

FOTO: Montebello Vicentino, 1° settembre 2024: l’Oratorio di Sant’Egidio risplende di nuova luce grazie al restauro impeccabile del pittore Michelangelo Valbona, affiancato da Bruno Turetta. La celebrazione della S. Messa tradizionale, officiata da Don Eugenio Xompero, unisce arte e spiritualità, regalando ai presenti un’esperienza carica di emozione e memoria storica. (Foto Umberto Ravagnani)

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A. PEDROLLO UN GENIO MUSICALE

[420] ARRIGO PEDROLLO: un genio musicale
Una vita dedicata alla musica, tra innovazione e tradizione

Il 23 dicembre 2024 segnerà il sessantesimo anniversario della scomparsa di Arrigo Pedrollo, straordinario compositore di Montebello Vicentino. La sua musica, ricca di sfumature e intensità, rappresenta un ponte tra tradizione e innovazione. Pedrollo non era solo un musicista, ma un autentico poeta dei suoni, capace di raccontare emozioni universali attraverso le sue note. La sua eredità artistica continua a risuonare, ispirando nuove generazioni e mantenendo viva la memoria di un talento unico. Celebrare Pedrollo significa onorare un faro della nostra cultura musicale, un esempio eterno di passione e genio creativo.
Nato il 5 dicembre 1878 a Montebello Vicentino, Arrigo Pedrollo rappresenta uno dei nomi più brillanti della musica italiana del XX secolo. La sua vita e la sua carriera testimoniano un raro connubio di talento, dedizione e visione, che gli hanno permesso di conquistare un posto di rilievo nel panorama lirico e sinfonico internazionale.
Figlio di Luigi Pedrollo, organista e direttore di banda, e di Santa Businello, Arrigo crebbe in un ambiente ricco di stimoli musicali. Il talento precoce del giovane Pedrollo si rivelò già in tenera età: a soli quattro anni suonava composizioni di Chopin, mentre a cinque otteneva i suoi primi riconoscimenti pubblici. La contessa Elisa Marsilio Orgian Piovene, colpita dalle sue doti, intervenne per introdurlo ai maestri Antonio e Gaetano Coronaro.
Grazie a questo sostegno, nel 1892 Pedrollo fu ammesso al Conservatorio di Milano, distinguendosi come il migliore tra undici candidati. Qui studiò pianoforte sotto la guida di Guglielmo Andreoli e approfondì armonia e composizione con Gaetano Coronaro, ereditando una solida preparazione che sarebbe stata alla base della sua futura produzione musicale. Durante gli anni di studio, la sua versatilità lo portò a diventare “maestrino”, insegnando pianoforte e solfeggio a studenti più giovani.
Nel 1900, a conclusione del suo percorso di studi, Pedrollo presentò la sua Sinfonia in Si Minore, conosciuta come La romantica. L’opera, articolata in quattro movimenti, fu diretta nientemeno che da Arturo Toscanini, un evento straordinario per un giovane compositore. Questo riconoscimento segnò un momento cruciale per la sua carriera, consacrandolo come un talento emergente nel panorama musicale italiano.
Il 1908 segnò una tappa fondamentale per Pedrollo con la vittoria del Concorso Sonzogno grazie alla sua prima opera lirica, Juana. Basata sul libretto di Carlo De Carli, Juana si distinse per la complessità emotiva e narrativa, combinando tradizione e sperimentazione. L’opera debuttò nel 1914 al Teatro Eretenio di Vicenza, riscuotendo un grande successo e venendo replicata in molti altri teatri italiani.
Parallelamente, Pedrollo compose Terra Promessa, un’opera che esplorava tematiche bibliche e spirituali attraverso una scrittura musicale raffinata. Presentata per la prima volta al Teatro Ponchielli di Cremona, l’opera fu accolta con entusiasmo e successivamente rielaborata nel 1913, confermando l’abilità del compositore di innovare pur rimanendo radicato nella tradizione.
Il 1920 rappresentò un anno chiave nella carriera di Pedrollo, segnato dalla presentazione di due delle sue opere più importanti: La veglia e L’uomo che ride. La prima, rappresentata al Teatro dei Filodrammatici di Milano, si caratterizzò per un’intensa carica emotiva e un linguaggio musicale innovativo. Accolta con entusiasmo, l’opera fu replicata in Italia e all’estero, arrivando anche al Metropolitan di New York.
Contemporaneamente, Pedrollo portò in scena L’uomo che ride, un adattamento del celebre romanzo di Victor Hugo. Quest’opera, messa in scena al Teatro Costanzi di Roma, consolidò la sua reputazione come uno dei compositori più apprezzati del suo tempo, dimostrando la sua capacità di tradurre grandi capolavori letterari in esperienze musicali di grande impatto.
Milano divenne la città d’elezione per Pedrollo, non solo come compositore ma anche come docente. Nel 1924, Maria di Magdala, un’opera lirica ispirata a temi evangelici, debuttò al Teatro Dal Verme, ottenendo grande successo. Due anni dopo, il compositore presentò Delitto e castigo, tratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij, alla Scala di Milano. Quest’opera, caratterizzata da una scrittura orchestrale audace e da un’intensa introspezione psicologica, rappresentò uno dei vertici della sua carriera.
Parallelamente all’attività compositiva, Pedrollo assunse nel 1929 la cattedra di contrappunto al Conservatorio di Milano, contribuendo alla formazione di una nuova generazione di musicisti e consolidando il suo ruolo nella scena musicale italiana.
Negli anni Trenta, Pedrollo continuò a creare opere di grande rilievo, come Primavera Fiorentina e L’amante in trappola, quest’ultima basata su una novella del Decamerone. Queste composizioni, apprezzate sia in Italia che all’estero, dimostrarono la capacità del compositore di rinnovare il linguaggio musicale senza abbandonare le radici della tradizione lirica.
Un’altra opera significativa fu Il giglio di Alì, composta negli anni Quaranta e frequentemente trasmessa dalla Rai. Questo lavoro riflette la maturità artistica di Pedrollo, capace di combinare elementi tradizionali e moderni con una sensibilità unica.
Nel 1941, Pedrollo lasciò il Conservatorio di Milano per dirigere il Liceo Musicale Pollini di Padova. Tuttavia, il legame con la sua terra d’origine rimase sempre forte, e nel 1942 tornò a Vicenza, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Sebbene in questa fase la sua attività compositiva si fosse ridotta, Pedrollo continuò a essere una figura di riferimento nella scena musicale italiana.
Arrigo Pedrollo è stato un compositore capace di unire tradizione e innovazione, creando opere che ancora oggi risuonano per la loro profondità emotiva e il loro valore artistico. Dalle sue prime composizioni sinfoniche ai capolavori lirici, la sua carriera rappresenta un modello di dedizione e genialità.
Oggi, il suo lavoro è un tesoro che merita di essere riscoperto, non solo come testimonianza di una straordinaria epoca musicale, ma anche come esempio di un artista che ha saputo interpretare il suo tempo con passione e visione.
Nel 1924, Arrigo Pedrollo creò la Marcia dei Combattenti, un omaggio carico di emozione per l’inaugurazione del monumento ai caduti di Montebello. Questa composizione per banda, che potrebbe essere ancora custodita negli archivi della banda civica locale, rappresenta un pezzo di storia e tradizione che meriterebbe di essere riscoperto e valorizzato.
Un sincero ringraziamento va al nipote di Arrigo, Raffaello Pedrollo, il cui contributo informativo è stato indispensabile per questo nostro articolo. Raffaello inoltre ci informa della recentissima produzione del CD di La Veglia da parte del soprano Denia Mazzola Gavazzeni pubblicata da Bongiovanni Bologna e che la Nuova Orchestra Pedrollo, un’orchestra d’archi attiva dal 2014, si esibisce regolarmente, mantenendo vivo il nome del maestro. Alcune registrazioni, disponibili su YouTube, permettono di riscoprire il fascino della sua musica.

LA NUOVA ORCHESTRA PEDROLLO è composta da musicisti che scelgono di incontrarsi, condividere esperienze e intrecciare storie attraverso la musica. Ogni prova è un dialogo tra note scritte e mani che le rendono vive, rivelando una bellezza nascosta. La musica diventa arte viva, arricchita dai luoghi, dalle emozioni del pubblico e dall’unione di strumenti.

ARRIGO PEDROLLO: WALZER - Ascolta ...

Arrigo Pedrollo: Walzer / Gabriele Dal Santo, pianoforte e direttore – Nuova Orchestra Pedrollo /
Registrata al Teatro Olimpico, Vicenza nel 2014, in occasione del 50esimo della morte di A. Pedrollo.

Violini I:
M° Giovanni Guglielmo, primo violino
Irene Pedrollo, Andrea Giacometti, Alessandro Gasperini, Giulio Marangoni, Eleonora Dal Santo

Violini II:
Tiziano Guarato, Enrica Ronconi, Laura Mazza, Giulia Menara

Viole:
Lisa Bulfon, Michele Sguotti, Nicola Possente, Pamela Micoli

Violoncelli:
Daniele Cernuto, Massimiliano Varusio, Anna Grendene

Contrabbassi:
Michele Gallo, Antonio Danese

Arpa: Giulia Rettore

Umberto Ravagnani

BIBLIOGRAFIA:
– G.Maccagnan, Una vita per la musica, 2018;
– F.Grassi, Arrigo Pedrollo, 1979.
– Testi del soprano Denia Mazzola Gavazzeni per la recentissima registrazione di “La Veglia” – Bongiovanni Bo 2024.
FOTO:
1) Il Maestro Arrigo Pedrollo ai tempi di “Juana” – 1914. Sullo sfondo ritratto di Giosuè Carducci con dedica (dal libro Arrigo Pedrollo di Francesco Grassi).
2) Lettera manoscritta inviata da Arrigo Pedrollo ad un suo ammiratore a l’Havana (Cuba), il 26 novembre 1924. All’interno le prime note dell’opera “Maria di Magdala” (collezione privata Umberto Ravagnani).
3) Arrigo Pedrollo all’epoca di “L’uomo che ride“, esattamente un secolo fa, in prima pagina sulla prestigiosa rivista “Musica e Scena”.

Vedi anche gli articoli n.[150] del 5/9/2019 “ARRIGO PEDROLLO” in e n.[359] del 12/10/2023 “Memoria per ARRIGO PEDROLLO”.

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DIMENTICATO IN TERRA STRANIERA

 

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PER UN SACCO DI PATATE

 

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LA VILLA DEI MALASPINA

 

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LA BONIFICA DELL’AGRO PONTINO

 

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MONS. SILVESTRO ALBERTINI

 

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ADELE DE FILIPPI

 

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RITROVARE SÉ STESSI

 

NATALE 2024: RITROVARE SÉ STESSI

LA MAGIA DI UN MOMENTO IN CUI TUTTO È POSSIBILE

     La pioggia cade incessante su Piazza Italia, creando un’atmosfera unica, dove la frenesia del paese sembra rallentare e i riflessi delle luci natalizie scintillano sulle pozzanghere come in un sogno. Natale è alle porte, e la piazza è allestita con decorazioni che raccontano l’Evento in ogni angolo: ghirlande di abeti, stelle dorate e luci soffuse che creano una sinfonia luminosa nel grigio della sera. Un uomo con l’ombrello avanza con calma sotto la pioggia, immerso in un mondo ovattato, mentre un’auto sfreccia a lato, sollevando schizzi d’acqua. È un momento che parla di quiete e attesa, e un leggero sorriso sul volto dell’uomo sembra cogliere il fascino di questa notte speciale.

     A pochi metri di distanza, una grande finestra si affaccia proprio su Piazza Italia, illuminata come un quadro in movimento che riflette il calore delle luci all’interno di una casa decorata con cura. La pioggia continua a battere sull’asfalto, ma dentro tutto è fermo e raccolto, avvolto in un’atmosfera accogliente. Un camino al centro della stanza arde vivacemente, diffondendo un bagliore dorato e scaldando l’intero ambiente. Su un divano morbido, un cane dal pelo corto dorme pacifico, sprofondato nel riposo, ignaro di tutto ciò che accade fuori.

     Sulla superficie del tavolino davanti al divano, diversi oggetti raccontano l’essenza del Natale. C’è una piccola palla di vetro con all’interno una baita di montagna: ogni volta che la si scuote, una neve incantata cade dolcemente avvolgendo la casetta. Accanto, un lumino splende con una luce morbida e tremolante. Lorena l’ha costruito magistralmente con un semplice vaso di vetro, decorandolo con dettagli e accessori accurati. È un piccolo oggetto artigianale che riflette il calore delle mani che l’hanno creato e il desiderio di rendere speciale anche il più semplice degli oggetti.

     Non lontano dal camino, un cesto con dei regali incartati in carta semplice e nastri rossi richiama l’attesa dei doni. È una semplicità che fa risaltare il pensiero, l’intenzione che sta dietro a ciascun regalo, e tutto, in questo spazio, comunica un profondo senso di calma. Al centro della stanza, una gatta grigia si dedica con cura alla sua toilette, mentre un piccolo gattino la osserva attentamente dalla sua cuccia e cerca di imitarne i movimenti, goffo ma adorabile, in un’immagine di tenerezza che rende l’ambiente ancora più accogliente e familiare.

     Accanto alla finestra si erge un maestoso albero di Natale, decorato con palline colorate e luci che brillano a intervalli, creando un contrasto magico con il buio esterno. È un simbolo di festa e speranza, e i suoi rami sembrano quasi abbracciare l’intera stanza. Sopra il camino, un monitor mostra immagini natalizie: scorrono lente, come se il tempo, qui, seguisse un ritmo diverso, più tranquillo e profondo.

     La scena si completa con la presenza di un uomo che passeggia sotto la pioggia. Si ferma per un istante davanti alla finestra e guarda all’interno, attratto dal calore che traspare dalla casa. I suoi occhi sembrano cogliere l’essenza di ciò che il Natale rappresenta: una tregua dal mondo esterno, un momento di connessione e serenità. Dopo un attimo di contemplazione, si allontana, portando con sé il riflesso di quel calore.

     La canzone “A Natale puoi” sembra avvolgere questa scena con le sue parole semplici e profonde: “A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai” È un invito a lasciarsi andare, a riprendere in mano i propri sogni, a tornare a desiderare ciò che si è messo da parte. Natale è quel momento dell’anno in cui sembra possibile fermarsi, dimenticare per un attimo le preoccupazioni, e riscoprire quel calore che spesso resta in secondo piano. In questo spazio, la vita sembra prendersi una pausa, e l’amore, come suggerisce la canzone, può esprimersi senza riserve.

     “A Natale puoi dire ciò che non riesci a dire mai” Il fuoco del camino, la tranquillità della stanza e la vicinanza delle persone care rendono facile aprirsi, lasciando fluire quei sentimenti che spesso rimangono nascosti. È una verità delicata e potente: a Natale, quel “ti voglio bene” che rimane spesso non detto trova finalmente il suo spazio, un luogo dove può essere accolto senza paura.

     C’è una luce speciale che accompagna questa scena, una luce blu che sembra brillare proprio dentro l’anima. È la luce della speranza, del desiderio di amore, della voglia di prendersi cura delle persone che ci circondano. Natale è una celebrazione di questo sentimento, una festa che ci invita a mostrare il meglio di noi stessi, non solo per un giorno, ma ogni giorno, perché, come dice la canzone, “questa luce può crescere, se lo vuoi

     All’interno della casa, il cane continua a dormire, il fuoco crepita, la gatta e il suo cucciolo proseguono la loro danza di tenerezza. Fuori, la pioggia cade, e Piazza Italia è immersa in una calma quasi irreale, illuminata dalle luci di Natale che brillano contro l’oscurità. Questa è una notte magica, un momento perfetto per riconnettersi con ciò che conta davvero. È come se la piazza, la pioggia, la casa e la melodia creassero un tutt’uno, un inno alla pace e all’amore che ci ricorda che, anche nel cuore dell’inverno, il calore può trovarci e avvolgerci.

     E così, l’uomo con l’ombrello, che si allontana lentamente dalla finestra, porta con sé il messaggio racchiuso in questa scena: Natale è il tempo di fare di più, di vivere di più e di amare di più. È un invito a guardare chi amiamo e a dirglielo, a dedicare quel momento in più a chi ci è vicino. Ogni dettaglio, dalla palla di vetro con la neve alla luce calda del lumino di Lorena, racconta una storia di affetto e di protezione.

     Quando la canzone si ripete con “A Natale puoi…” sembra quasi ricordarci che il Natale è anche una promessa, una porta aperta verso una vita vissuta con più dolcezza, più verità e più coraggio. È una notte che non si dimentica, perché è intrisa di quella luce che può davvero illuminare ogni giorno dell’anno.

Umberto Ravagnani


LA CASA DEL FASCIO A MB

 

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RINUNCIA ALLA CITTADINANZA

 

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PADRE GIORGIO M. ZEINI

 

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IL MAESTRO GIOVANNI GOBBO

 

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IL MORBO ASIATICO

 

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MARIA DE GIACOMI

 

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ROSANNA ZANESCO

 

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1945: TRA CAOS E LIBERAZIONE

 

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MONTEBELLO SOTTO ASSEDIO

 

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LA PALA DELLA MADONNA DI MB

 

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NOTTE DI PAURA AL BORGO

 

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ANTONIO AGOSTINI

 

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ARTURO COSTA

 

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