[447] L’INFERNO DEGLI ALPINI
Una vita spezzata
Mario Clerici nacque il 29 aprile 1914, in un’Italia ancora inconsapevole della bufera mondiale che stava per travolgerla. Montebello, il suo paese, era allora un piccolo centro immerso nella quiete rurale, fatto di campi, strade polverose e cortili sempre pieni di vita. La guerra sarebbe scoppiata da lì a pochi mesi, ma quel giorno d’aprile portava con sé solo il pianto di un neonato e la speranza di una famiglia.
Secondo di undici fratelli, Mario crebbe in una casa dove l’amore non era mai un bene carente. I suoi genitori, Vittore, di Montebello, e Agnese Zanetti, di Zermeghedo, erano persone semplici ma profondamente radicate nei valori della fede, della solidarietà e della comunità. La famiglia era numerosa, sì, ma non disordinata. Ognuno aveva il proprio posto, il proprio compito. L’armonia si costruiva giorno per giorno, tra preghiere dette a mezza voce, mani sporche di terra, pasti condivisi e giochi improvvisati nel cortile.
Per Mario, crescere in mezzo a dieci fratelli* non fu mai un peso. Anzi, imparò presto il senso di responsabilità, la forza della cooperazione, ma anche il gusto per lo scherzo e la battuta. Era un ragazzo vivace, pieno di energia, sempre pronto a tendere una mano o ad accendere un sorriso. Chi l’ha conosciuto lo ricorda con affetto: un volto aperto, due occhi sempre accesi e un entusiasmo che sembrava inesauribile. Non era solo benvoluto; era uno di quei giovani che sembrano nati per farsi voler bene da tutti.
La casa in cui viveva raccontava, in silenzio, una storia più antica. Mobili in legno scuro, quadri dalle cornici importanti, oggetti d’arredo che parlavano di un passato forse più agiato di quello presente. I nonni paterni, si diceva, venivano dalla Lombardia, probabilmente dalla zona del Lago di Como. Ma nessuno sapeva con certezza il motivo per cui si fossero trasferiti a Montebello. Il padre, Vittore, era sempre sfuggente su quell’argomento, come se volesse tenere nascosto qualcosa o forse solo proteggere un pezzo di passato rimasto in ombra.
Mario crebbe respirando un clima fatto di dignità e concretezza. Il lavoro era parte integrante della vita familiare: si imparava presto ad aiutare, a contribuire, a non tirarsi indietro. Mario lavorava insieme al padre e al fratello Gino nel commercio ambulante. Era un’attività che dava soddisfazione, fondata su principi semplici: onestà, impegno, rispetto. “Il consumo fa il guadagno” diceva sempre il padre, e questa massima risuonava tra la merce che vendeva e le chiacchiere con i clienti. Mario e Gino, durante le pause, si divertivano a cantare i canti della Messa: il Kyrie, il Gloria. Lo facevano ad alta voce, come esercizio e come rituale. Anche la spiritualità, a casa Clerici, aveva il suo posto. Non ostentata, ma viva.
Mario assorbiva tutto: il senso del dovere, la profondità della fede, ma anche il valore delle relazioni. Crescendo, si fece notare per il suo carattere forte e al tempo stesso gentile. Era un giovane che ispirava fiducia. Per i suoi coetanei, divenne presto una figura di riferimento. Non imponeva, non comandava. Coinvolgeva. Era un leader naturale, carismatico senza saperlo. Parlava poco, ma con peso. Rideva molto, ma con intelligenza.
Mario, proprio come il padre, non era alto né particolarmente atletico, ma aveva forza da vendere. Era robusto, saldo come una quercia. Un pomeriggio d’inizio primavera, mentre lavorava nell’orto di famiglia, vicino all’argine del torrente Chiampo, si ritrovò coinvolto in un evento drammatico. Il torrente, gonfio per le piogge recenti, scorreva impetuoso. All’improvviso, urla disperate squarciarono il silenzio: un bambino era caduto in acqua. Mario non esitò. Abbandonò gli attrezzi, corse sull’argine, si tuffò tra le onde torbide. Dopo una lotta con la corrente, riuscì a tirare fuori quel corpo piccolo e inerme. Ma era troppo tardi. Il bambino, che abitava a pochi passi da lì, era già morto. Aveva battuto violentemente la testa contro uno dei grossi massi di granito che punteggiavano la base dell’argine. Si seppe in seguito che quel giorno era uscito con alcuni amici per cercare muschio, da mettere nel presepe. Una tragedia banale, quotidiana, figlia di un gesto innocente. Quel ragazzino, tra l’altro, era il figlio di un caro amico di Mario, che proprio pochi giorni prima gli aveva chiesto di fargli da padrino per la Cresima. Il dolore fu enorme, straziante. Quel giorno Mario non perse solo un bambino del paese, ma un simbolo della fragilità della vita.
Poi arrivò la guerra. La seconda, più crudele, più coinvolgente. L’Italia fascista, spinta dall’ambizione di Mussolini, entrò nel conflitto con l’illusione di riconquistare un ruolo di potenza. Mario, come molti altri, ricevette la chiamata alle armi. Era il 1941. Fu assegnato agli Alpini, nella Divisione Julia. Partì per il fronte greco-albanese, un territorio difficile, aspro, gelido. Un mondo lontanissimo da Montebello.
Nel frattempo, a casa, la guerra cominciava a farsi sentire. I telegrammi arrivavano uno alla volta, come coltelli nella carne della comunità. I primi giovani montebellani cominciavano a cadere. Ogni notizia era un dolore collettivo. Il paese, piccolo e coeso, viveva ogni lutto come proprio. Ma nessuna notizia colpì tanto quanto quella che riguardò Mario Clerici.
La comunicazione giunse all’improvviso: Mario era morto sul fronte greco-albanese. Era caduto durante quella che fu ricordata come l’Offensiva di Primavera, un attacco voluto da Mussolini nel marzo del 1941 per cercare di ribaltare le sorti di una guerra ormai segnata dal fallimento. L’offensiva, iniziata tra i monti albanesi, tra il fango, la neve e la fame, fu un disastro annunciato. Le truppe italiane, stremate e male armate, tentarono un assalto frontale contro i greci, ben trincerati e determinati. La battaglia si concentrò su Cima 731, una vetta insanguinata e mai conquistata, nonostante diciotto assalti.
La campagna si concluse il 16 marzo con un nulla di fatto. Undicimila italiani tra morti e feriti. Mario era uno di loro. Un giovane pieno di sogni, strappato alla vita in una guerra che non aveva scelto, per una causa che non gli apparteneva. La sua morte lasciò un vuoto enorme. A Montebello fu come se il tempo si fosse fermato. Tutti lo conoscevano. Tutti lo stimavano. Per molti ragazzi del paese, Mario era un modello. Un ragazzo con la luce negli occhi, con la voglia di fare, con la generosità nel cuore.
Quando si seppe della sua fine, si diffuse un pensiero amaro: se anche uno come Mario era morto, allora nessuno era al sicuro. Era come se la guerra avesse voluto colpire non solo un corpo, ma un simbolo. Un simbolo di giovinezza, di energia, di bontà.
E in effetti fu così. Perché da quel momento la lista dei caduti si allungò. Altri nomi, altri volti. Ma quello di Mario Clerici restò, nella memoria collettiva, come uno dei più luminosi. Non perché fosse migliore degli altri, ma perché rappresentava qualcosa di più: la promessa spezzata di un futuro possibile. Un ragazzo che avrebbe potuto fare tanto, costruire, amare, restare. Ma che invece fu inghiottito dall’assurdità della storia.
Mario non fu solo un soldato caduto. Fu un figlio, un fratello, un amico, un giovane che credeva nella vita. E che morì senza clamore, come tanti, ma con la dignità che solo chi ha vissuto con sincerità può portare fino in fondo.
Ancora oggi, a Montebello, qualcuno pronuncia il suo nome con rispetto. Non tanto per il fatto che fu un eroe di guerra — perché in quella guerra di eroi veri ce n’erano pochi — ma per ciò che rappresentava: la bellezza della giovinezza spesa bene, anche se troppo presto.
FOTO: Mario Clerici prima della partenza per l’Albania (rielaborazione Umberto Ravagnani).
NOTA: * Questi i nomi degli undici fratelli: Pietro, Mario, Gino, Maria, Angela, Gina, Teresa, Silvia, Giuseppina, Pierina (diventerà poi Suor Patrizia) e Patrizio.
BIBLIOGRAFIA: – E.Crosara, “La famejeta”, Montebello, 2022.
– A.Basciani, “L’impero dei Balcani. L’occupazione italiana dell’Albania (1939-1943)“, Roma, Viella, 2022.
Umberto Ravagnani
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