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GIUSTIN VALMARANA

[429] GIUSTIN VALMARANA
Potere, Conflitti e Patrimonio

Giustin Valmarana era un uomo di grande influenza, il cui nome era legato a immensi possedimenti e a un patrimonio che lo rendeva una delle figure più potenti del suo tempo. Dai documenti catastali dell’epoca, emerge un quadro impressionante: a Montebello possedeva 291 campi coltivati, diverse case, una decima e persino un’abitazione con licenza per ospitare un’osteria e una macelleria. Le sue proprietà a Montebello erano affittate a famiglie di spicco come i Merlughi, i Padoan, i Pizzardini e i Marangoni. Oltre a queste, si aggiungevano case situate in Contrada della Chiesa, al Borgo e alla Guà. Spiccano tra i suoi beni l’osteria Grande, l’osteria alla Guà e una macelleria particolarmente redditizia. Inoltre, la casa in Contrada Vigazzolo e numerose altre abitazioni gli garantivano un reddito annuo considerevole di 221 ducati. I suoi possedimenti si estendevano su vaste aree: 68 campi al Vanzo, 40 al Frassine, 4 a San Egidio e molti altri, rendendolo un proprietario terriero di straordinario rilievo.
Il primo gennaio del 1725 fu una data chiave per il futuro della famiglia Valmarana. I fratelli di Giustin, Leonoro, don Giulio Cesare e Bartolomeo, si riunirono per stabilire un piano che garantisse la continuità della loro casata. Essendo tutti figli del defunto conte Cristoforo Valmarana, la responsabilità di assicurare un futuro alla famiglia ricadeva su di loro. Tuttavia, né Leonoro né Bartolomeo volevano assumersi l’impegno del matrimonio, mentre don Giulio Cesare, essendo un uomo di Chiesa, non poteva prendere parte a questioni ereditarie. Così, la responsabilità cadde su Giustin, il quale accettò il compito di sposarsi e generare eredi per il bene della dinastia. Per consolidare l’accordo, Leonoro dichiarò che, in caso di divisione dei beni, avrebbe ceduto un terzo della sua quota ai figli maschi che sarebbero nati dal matrimonio di Giustin. Inoltre, stabilì che, alla sua morte, il suo intero patrimonio sarebbe andato ai nipoti. Pochi mesi dopo, il 9 marzo 1725, anche don Giulio Cesare e Bartolomeo decisero di fare lo stesso, affidando a Giustin la gestione dell’intero patrimonio e nominandolo amministratore unico.
Questo incarico portava con sé enormi responsabilità. Giustin non solo doveva occuparsi della gestione delle terre e degli affitti, ma anche garantire ai fratelli una rendita sufficiente per vivere agiatamente, compresa la possibilità di avere una dimora qualora avessero scelto di non risiedere nella casa di famiglia a Vicenza. Tuttavia, nonostante questi accordi, ben presto scoppiò un conflitto. Don Giulio Cesare avviò una lunga battaglia legale contro il fratello, accusandolo di non fornirgli abbastanza denaro per mantenere uno stile di vita decoroso in qualità di abate dei Filippini. Don Giulio aveva un carattere instabile: entrava e usciva ripetutamente dall’ordine religioso, cambiava spesso residenza e, quando si trovava a Montebello, alloggiava nella casa di Francesco Piana, in contrada della Chiesa. Era noto per la sua propensione a spendere generosamente e per la sua tendenza a elargire doni in occasione di eventi importanti, come la corsa del Palio di Montebello. La richiesta di don Giulio Cesare di raddoppiare l’assegno annuale portò a una controversia che sfociò in un lungo processo legale, caratterizzato da scambi di accuse e tensioni familiari. Giustin si difese sostenendo di aver sempre rispettato gli accordi, sottolineando che il matrimonio era stato un onere imposto dai fratelli e che doveva sostenere le spese per cinque figlie, due figli maschi e due sorelle monache, oltre a gestire un’enorme proprietà.
Il caso arrivò prima davanti al podestà di Vicenza e poi alle autorità della Serenissima a Venezia. Per fare chiarezza sulla questione, vennero analizzati i testamenti della famiglia Valmarana e i beni che Giustin aveva acquisito dopo la morte del padre. Questi documenti si rivelarono cruciali per comprendere la distribuzione del patrimonio e la sua gestione nel tempo.
Uno dei simboli più evidenti del potere e della ricchezza della famiglia Valmarana era la loro magnifica villa a Montebello, oggi conosciuta come villa Zonin. Questa splendida residenza venne edificata nel 1707 per volontà del conte Cristoforo Valmarana, come indicava un’iscrizione scolpita sulla facciata e riportata dallo storico Faccioli: «Christophorus comes de Valmarana q. Com. – Eleonori a fundamentis erexit – Anno MDCCVII». Tuttavia, durante l’occupazione francese, la villa subì un destino inaspettato: fu trasformata in un albergo pubblico e divenne nota come l’Osteria Grande. Questa trasformazione la rese un punto di riferimento per gli ufficiali francesi di stanza nella regione. Si racconta che lo stesso Napoleone Bonaparte, dal balcone della villa, abbia infiammato la folla con uno dei suoi celebri discorsi. Anche il patriota Silvio Pellico vi soggiornò durante il suo tragico viaggio verso la prigionia dello Spielberg.
Un dettaglio interessante legato alla villa riguardava il suo ingresso. Per accedere all’Osteria Grande, infatti, era necessario scendere alcuni gradini, poiché nel tempo la strada principale (oggi via XXIV Maggio) era stata sopraelevata a causa dell’innalzamento del letto del fiume Chiampo. La facciata della villa, impreziosita da quattro maestose paraste doriche, una raffinata trabeazione e un frontone decorato con eleganti statue, la rendeva una delle dimore più affascinanti e iconiche della zona.
Nel corso degli anni, la storia della famiglia Valmarana continuò a intrecciarsi con le vicende politiche e sociali del tempo. Giustin, nonostante le dispute e le difficoltà, rimase una figura centrale nella gestione del patrimonio familiare, lasciando un’impronta duratura nella storia di Montebello e nei ricordi di chi visse in quel periodo. Il suo impegno nella conservazione delle ricchezze e nella gestione delle proprietà dimostrò la sua abilità e la sua determinazione nel mantenere saldo il nome della famiglia Valmarana.

BIBLIOGRAFIA: – L.Bedin, “Santa Maria di Montebello” Vol II, Montebello Vicentino 2018.
– B. Munaretto, “Memorie storiche di Montebello Vicentino“, Montebello Vicentino 1932.
FOTO: Villa Valmarana-Boroni in una foto di qualche anno fa (Umberto Ravagnani).

Umberto Ravagnani

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IL MONTE DEI FRATI

[428] IL MONTE DEI FRATI
Un enigma affascinante

Nel 1731, a Montebello Vicentino, il prevosto Don Pietro Caprini decise di intraprendere un’iniziativa che avrebbe cambiato profondamente la vita spirituale del paese. Animato dal desiderio di rafforzare la fede e migliorare l’assistenza spirituale alla comunità, Don Pietro, con l’approvazione della Spettabile Comunità, invitò i Padri Minori Riformati a stabilirsi nella sua parrocchia. Questo gesto, accolto con entusiasmo, segnò l’inizio di un nuovo capitolo nella storia del territorio.
Il 14 settembre di quello stesso anno iniziarono i lavori per la costruzione del Sacro Ospizio. L’edificio, situato sul colle sopra la contrada Mussolina, in un’area chiamata oggi Contrada Ospizio, era pensato per offrire accoglienza ai frati e per diventare un luogo di spiritualità per l’intera comunità. Ben presto, il colle fu ribattezzato Monte dei Frati, un nome che rifletteva la presenza costante e significativa dei religiosi.
Il Sacro Ospizio non era solo una dimora per i frati, ma un centro pulsante di attività religiose e sociali. All’interno fu costruito un oratorio pubblico dedicato a San Pietro d’Alcantara, un santo molto amato dai Francescani, noto per la sua vita di austerità e la profonda devozione. L’oratorio divenne presto un punto di ritrovo per i fedeli, che vi si recavano per pregare e partecipare alle funzioni religiose.
I frati si distinsero per il loro instancabile impegno verso la comunità. Non si limitarono a dedicarsi alla preghiera e alla meditazione, ma presero parte attiva alla vita della parrocchia. Collaboravano nelle funzioni della Chiesa Prepositurale, offrivano conforto spirituale agli ammalati e si occupavano anche di aiutare le famiglie in difficoltà. La loro presenza era un faro di speranza, specialmente nei momenti più difficili.
Uno degli aspetti più apprezzati del loro lavoro era la predicazione domenicale durante l’Avvento. Ogni settimana, i frati condividevano sermoni pieni di significato e ispirazione, capaci di toccare i cuori di tutti i presenti. I loro messaggi, improntati alla riflessione e alla speranza, accompagnavano i fedeli verso il Natale, rafforzando il senso di comunità e la devozione. Questo impegno durò con costanza fino al 1769, lasciando un segno indelebile nella memoria collettiva.
Con il passare degli anni, il Sacro Ospizio divenne sempre più importante per la comunità. Il prevosto Leonardo Sangiovanni, che succedette a Don Pietro Caprini, condivise la stessa visione di accoglienza e sostegno verso i frati. Non solo li accolse con grande calore, ma li supportò in ogni necessità. Li autorizzò a celebrare la messa nella chiesa parrocchiale e fornì loro tutto il necessario per portare avanti i riti religiosi.
Nei primi tempi, le celebrazioni avvenivano in un semplice casone provvisorio. Tuttavia, la crescente importanza della loro missione portò alla costruzione di un convento vero e proprio, che divenne la loro dimora stabile. Questo edificio non era solo un luogo fisico, ma un simbolo di dedizione e servizio. Era un punto di riferimento per chi cercava aiuto spirituale o semplicemente un luogo dove trovare pace e conforto.
Il Monte dei Frati, con il suo Sacro Ospizio e l’oratorio, diventò un centro vitale per l’intera comunità di Montebello Vicentino. La presenza dei Padri Minori Riformati rappresentava un sostegno tangibile, sia dal punto di vista spirituale che sociale. Le loro iniziative, dalla cura degli ammalati alla predicazione, testimoniavano una dedizione profonda verso il prossimo e un’autentica vocazione Francescana.
Questo luogo, nato dall’intuizione di Don Pietro Caprini e portato avanti con passione dai frati e dalla comunità, divenne un esempio concreto di come la fede possa trasformare un territorio.
I Frati Minori Riformati furono una delle principali comunità francescane, poste sotto il ministro generale degli Osservanti. Nel 1897 furono uniti agli Osservanti, ai Recolletti e agli Alcantarini, formando l’Ordine dei Frati Minori.
Dopo la separazione tra Osservanti e Conventuali, il dibattito sulla fedeltà alla regola francescana continuò a scuotere l’Ordine, dando vita a nuovi movimenti di riforma. In Italia, i frati desiderosi di seguire una disciplina più rigorosa presero il nome di Riformati. Questo ramo ebbe origine il 6 gennaio 1519, quando Francesco Licheto, ministro generale degli Osservanti, affidò il convento di Fonte Colombo, vicino Rieti, a Bernardino d’Asti e Stefano da Molina, figure centrali del rinnovamento.
Nel 1532, papa Clemente VII, con la bolla In suprema “militantis Ecclesiae”, autorizzò i frati più rigorosi a ritirarsi in conventi dedicati, obbligando i ministri provinciali a creare spazi per queste comunità. Successivamente, nel 1579, papa Gregorio XIII, con la bolla “Cum illius vicem”, concesse maggiore autonomia ai Riformati, che furono organizzati in custodie. Nel 1639, papa Urbano VIII permise alle custodie con almeno dodici conventi di diventare province.
Nel 1762, i Riformati raggiunsero il numero di 19.000 membri, affiancandosi ai 17.300 della famiglia cismontana e ai 22.600 della ultramontana.

BIBLIOGRAFIA: L.Bedin, “Santa Maria di Montebello” Vol II, Montebello Vicentino 2018.
IMMAGINE: Ricostruzione dell’Ospizio dei frati Francescani scalzi d’Alcantara (cortesia Luigi Bedin, rielaborazione grafica Umberto Ravagnani, 2025).

Umberto Ravagnani

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LETTERE A MARIA

[427] LETTERE A MARIA
Un enigma affascinante

Non accade certo ogni giorno ciò che capitò al celebre Aleardo Aleardi.1 Solitamente, quando un nome femminile o una figura di donna appaiono nei versi o nella prosa di uno scrittore famoso, la persona coinvolta mantiene un riserbo discreto. Lettori, critici e curiosi, al contrario, si scatenano nella caccia all’identità nascosta, rincorrendo ipotesi e teorie che spesso restano irrisolte. Basti pensare al mistero eterno attorno a Beatrice di Dante, o alle Silvie e Nerine di Leopardi. Ma la storia che riguarda Aleardi è unica nel suo genere e merita di essere raccontata.
Era il 1846 quando il giovane e affascinante conte veronese presentò al censore austriaco2 il suo volume intitolato “Lettere a Maria”. L’opera, un elegante intreccio di prosa poetica, ebbe un successo fulminante. Persino il censore, solitamente severo e distaccato, espresse un entusiasmo incondizionato. Ben presto, le pagine del libro iniziarono a conquistare lettori di ogni genere: giovani donne, patrioti e letterati si lasciarono incantare dalle emozioni che quei versi evocavano.
A Verona, come in altre città, molte donne iniziarono a dichiararsi segrete ispiratrici delle lettere. Una miriade di “Marie” si moltiplicò tra sorrisi e allusioni, ognuna desiderosa di rivendicare un legame speciale con il poeta.
Tra le tante ipotesi che ruotavano intorno al mistero di Maria, una figura spiccava con una certa autorevolezza: Francesca Monti, una donna di eccezionale bellezza e raffinatezza. Nata a Napoli, divenne Baronessa sposando il Barone Hermann di Trieste, uomo d’affari e figura di spicco della società asburgica. La coppia si trasferì a Verona, dove Francesca conquistò l’ammirazione di tutti con il suo portamento elegante e la sua passione per le arti. Non era raro trovarla circondata dai più brillanti esponenti dell’intellettualità dell’epoca, attratti non solo dalla sua intelligenza, ma anche da un fascino che pareva magnetico.
A un certo punto, però, Francesca si ritirò bruscamente dalla scena mondana. Abbandonò la vivacità di Verona per stabilirsi in una villa imponente a Montebello Vicentino, conosciuta attualmente come Villa Miari o Villa Casarotti.3 Questa dimora, situata a mezza costa, domina, ancora oggi, il paesaggio con la sua struttura elegante e, all’epoca del racconto, con dei giardini molto ben curati. Tuttavia, il trasferimento non fu dettato solo dal desiderio di tranquillità. Negli anni in cui la Baronessa vi risiedette, la villa fu utilizzata per ospitare i lavoratori impegnati nella costruzione della ferrovia Milano-Venezia, la celebre Ferdinandea. Questi uomini, spesso stanchi e poco attenti, lasciarono profonde tracce del loro passaggio, costringendo Francesca a organizzare un restauro completo della proprietà una volta terminati i lavori.
Durante il suo ritiro a Montebello, Francesca si dedicò a cause filantropiche, istituendo il primo asilo rurale per l’infanzia nella regione. Questo gesto, insieme alla sua improvvisa scomparsa dai salotti dell’alta società, alimentò voci e supposizioni. Molti iniziarono a credere che fosse lei la famosa Maria, musa ispiratrice delle celebri lettere di Aleardo Aleardi. La sua bellezza, il mistero che la circondava e la connessione con l’ambiente culturale dell’epoca la rendevano una candidata ideale.
Durante una serata in uno dei salotti più rinomati di Brescia, Aleardi annunciò casualmente che la donna che aveva più amato sarebbe arrivata il giorno successivo. L’affermazione scatenò un turbine di curiosità e invidie. Chi era questa donna? Sarebbe stata finalmente svelata la vera Maria?
L’indomani, la città fu in fermento. Nei salotti e lungo le strade, un clima di attesa febbrile aleggiava ovunque. Alcune signore rimasero nascoste dietro le finestre delle loro case, spiando dagli angoli strategici, pronte a scoprire l’identità della misteriosa figura. Infine, in tarda mattinata, Aleardo si fece vedere, passeggiando con calma sotto i portici. Al suo braccio, però, non c’era una nobildonna, né una bellezza leggendaria, ma una vecchina sorridente, avvolta in un semplice scialle. Era la sua balia, colei che gli aveva donato amore e cure nei suoi primi anni di vita. Con questo gesto ironico e affettuoso, Aleardo svelò il suo disinteresse per le rivalità e le vanità che lo circondavano.
La storia di Aleardo Aleardi si intreccia con i tumulti di un’epoca, riflettendo sia la forza della poesia sia le difficoltà della lotta per la libertà. Le sue parole, intrise di passione e impegno, continuano a risuonare come un richiamo al coraggio e alla bellezza, mentre il mistero di Maria rimane un affascinante enigma nel cuore della letteratura italiana.

BIBLIOGRAFIA: – Il quotidiano “Corriere della sera” del 17 febbraio 1927.
– A.Aleardi, LETTERE A MARIA, Venezia, 1846.
NOTE: 1) Il poeta, scrittore e conte Aleardo Aleardi, al secolo Aleardi Gaetano Maria, (assunse più tardi il nome con cui divenne famoso, Aleardo) nacque a Verona il 14 novembre 1812 dal conte Giorgio e da Maria Canali.
2) Dal 1815 al 1866 il Regno Lombardo-Veneto fu una regione amministrativa dell’Impero austriaco.
3) Questi sono i vari passaggi di proprietà della villa: Righi, Zanuso, Hermann, Mocenigo, Miari-Carlotti, Miari, Casarotti, Meneguzzo, Ogwang.
FOTO: Villa Miari in una foto di qualche anno fa (rielaborazione grafica Umberto Ravagnani, 2021).

Umberto Ravagnani

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IL RITRATTO STRAPPATO

[425] IL RITRATTO STRAPPATO
Un gesto frainteso

A Montebello Vicentino, si consumò nel 1880 un episodio destinato a suscitare grande clamore e a porre sotto i riflettori il delicato equilibrio tra autorità scolastiche e amministrative. La protagonista di questa vicenda fu una giovane maestra, dedita al suo compito educativo e rispettata nella comunità, che si ritrovò coinvolta in un caso tanto curioso quanto emblematico dei tempi.
La scuola elementare di Montebello, inaugurata nel 1869, rappresentava una delle prime istituzioni educative, se non la prima, create nel Veneto dopo l’Unità d’Italia. In un paese ancora fortemente ancorato alle tradizioni rurali, l’istruzione assumeva un ruolo fondamentale per lo sviluppo culturale e sociale delle nuove generazioni. La Legge Casati1, promulgata nel 1859 e poi estesa a tutta la nazione, aveva introdotto l’obbligo scolastico e affidato ai comuni la gestione delle scuole primarie. Tuttavia, l’applicazione della legge non fu semplice: le difficoltà economiche e la carenza di insegnanti qualificati rappresentavano ostacoli significativi, specialmente nei piccoli centri come Montebello.
Nonostante le sfide, la scuola di Montebello riuscì a divenire un punto di riferimento per la comunità locale. Gli insegnanti, oltre a impartire le nozioni di base, avevano il compito di trasmettere valori morali e civici, contribuendo così alla costruzione di una nuova identità nazionale. Tra questi educatori spiccava la giovane maestra protagonista della nostra storia, nota per il suo impegno e la sua dedizione.2
Tutto ebbe inizio durante una normale giornata di scuola, quando la maestra notò alcune sue alunne discutere animatamente davanti a un ritratto appeso in aula. L’immagine raffigurava una donna abbigliata in modo che, secondo le bambine, non rappresentava un modello di modestia. Preoccupata che tale ritratto potesse distogliere le sue allieve dai principi educativi che cercava di trasmettere, la maestra decise di rimuoverlo e, senza pensarci troppo, lo strappò.
Solo in un secondo momento si scoprì che l’immagine in questione era un ritratto della Regina d’Italia Margherita di Savoia. La notizia si diffuse rapidamente e suscitò grande scalpore. Alcuni giornali locali riportarono il fatto con toni accesi, denunciando il gesto come un oltraggio alla sovrana. In breve tempo, l’episodio divenne oggetto di accese discussioni pubbliche e politiche.
Le autorità locali, pressate dall’eco mediatico della vicenda, decisero di intervenire. Il Prefetto, ritenendo il gesto della maestra inaccettabile, ne decretò la destituzione dall’incarico. Questa decisione suscitò una reazione immediata nella comunità di Montebello, dove la maestra era molto stimata. Le famiglie degli alunni, riconoscendo il valore del suo operato, si mobilitarono per chiederne la reintegrazione.
Parallelamente, il giornale locale « Il Berico » prese le difese della maestra. Sfogliando attentamente gli articoli della Legge Casati, i redattori scoprirono che il licenziamento di un insegnante poteva essere disposto solo dal Consiglio Scolastico Provinciale, e non dal Prefetto. Forte di questa scoperta, il giornale denunciò l’irregolarità del provvedimento e chiese che fosse annullato.
Per comprendere meglio l’importanza di questa vicenda, è utile analizzare il contesto normativo e sociale dell’epoca. La Legge Casati, considerata la prima grande riforma del sistema educativo italiano, aveva l’obiettivo di garantire un’istruzione di base a tutti i bambini. Essa stabiliva l’obbligatorietà della scuola elementare per almeno due anni e affidava ai comuni la responsabilità di istituire e gestire le scuole. Nonostante le buone intenzioni, l’attuazione della legge incontrò numerose difficoltà, soprattutto nelle aree rurali, dove spesso mancavano le risorse necessarie per mantenere le strutture scolastiche.
Gli insegnanti, mal pagati e spesso costretti a lavorare in condizioni difficili, svolgevano un ruolo fondamentale nella società. Oltre a impartire le nozioni scolastiche, dovevano educare i bambini ai valori morali e civici, contribuendo così alla costruzione di una nuova identità nazionale. La figura della maestra di Montebello incarnava perfettamente questo ideale: una donna determinata, pronta a svolgere il proprio compito con serietà e passione, nonostante le difficoltà.
Grazie all’intervento del giornale locale e al sostegno della comunità, il caso venne riesaminato dal Consiglio Scolastico Provinciale, che il 10 settembre 1880 deliberò a favore della maestra. La decisione di riammetterla al suo posto rappresentò una vittoria non solo per l’insegnante, ma anche per l’intera comunità di Montebello, che vide riconosciuti i propri diritti.
Questo episodio, seppur circoscritto a una piccola realtà locale, evidenziò alcune problematiche fondamentali del sistema scolastico postunitario: il difficile equilibrio tra autorità centrali e locali, la necessità di garantire il rispetto delle leggi e l’importanza del ruolo degli insegnanti nella società.
La storia della maestra di Montebello ci offre uno spaccato significativo della vita scolastica nel Veneto di quell’epoca. In un periodo di grandi cambiamenti politici e sociali, l’istruzione rappresentava uno degli strumenti principali per la costruzione di una nuova identità nazionale. La vicenda, con il suo lieto fine, testimonia la determinazione di una comunità a difendere i propri diritti e il valore dell’educazione come strumento di emancipazione e progresso. In un tempo in cui la scuola era ancora un privilegio per pochi e la strada verso un’istruzione universale era tutta da costruire, episodi come quello di Montebello ci ricordano quanto fosse arduo, ma al tempo stesso fondamentale, il cammino intrapreso.

BIBLIOGRAFIA: – G.MANTESE, Memorie storiche della Chiesa vicentina, vol. V, Vicenza, 1954.
– “IL BERICO“, quotidiano della Provincia di Vicenza, 1880.
NOTE: 1) Con la legge Casati l’istruzione elementare era carico dei comuni ed era articolata in due cicli: un ciclo inferiore biennale, obbligatorio e gratuito, istituito nei luoghi dove ci fossero almeno cinquanta alunni in età di frequenza, e un ciclo superiore, anch’esso biennale, presente solo nei comuni sede di istituti secondari o con popolazione superiore a 4000 abitanti.
2) Nè il giornale “Il Berico“, né il Mantese riportano il nome della protagonista della nostra storia ma si tratta, molto probabilmente, della maestra Giulia Brenna, titolare della II e III classe Elementare femminile nell’anno scolastico 1879-80, o della sua collega Margherita Parise titolare della I, II e III classe Elementare femminile nell’anno scolastico 1880-81, a Montebello.
FOTO: Ritratto di Margherita di Savoia Genova (1851-1926), Regina d’Italia (1878-1900) e moglie del Re d’Italia, Umberto I (rielaborazione grafica Umberto Ravagnani).

Umberto Ravagnani

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UN NATALE DI SPERANZA

[422] UN NATALE DI SPERANZA
storie dalle trincee della Grande Guerra

Durante la Grande Guerra del 1915-18, l’Altopiano del Veneto, dalla Val Lagarina al fiume Brenta, fu uno dei fronti più cruenti e disperati. Le trincee scavate nelle montagne divennero rifugio e prigione per soldati giunti da ogni angolo d’Europa: italiani, molti dei quali di Montebello, francesi, inglesi, americani e volontari mossi dal desiderio di soccorrere i feriti. Dall’altro lato, si fronteggiavano austro-ungarici, croati, sloveni e altre nazionalità unite nella lotta. Il Pasubio, il Novegno, il Cengio e il Lemerle furono testimoni silenziosi di quell’immenso dolore, portando ancora oggi le cicatrici della guerra. Trincee abbandonate, crateri spalancati e ossari che sussurrano storie di vite spezzate si ergono come moniti senza tempo. In questi luoghi sacri giacciono migliaia di uomini, la cui memoria non deve svanire. Ricordare significa non solo rendere omaggio ai caduti, ma anche riflettere profondamente sul valore eterno della pace.
Questo articolo parla del Natale, ma di un Natale diverso, e lo scopo è quello di invitare le nuove generazioni, ma non solo, a scoprire e comprendere la tragedia che si è consumata in queste terre, affinché la storia non si ripeta.
Il Natale, spesso associato a calore e serenità, aveva un sapore completamente diverso per i soldati italiani impegnati nei duri inverni della Prima Guerra Mondiale, tra il 1915 e il 1918. Sulle montagne del Veneto, lontani dalle loro famiglie, questi uomini si trovavano ad affrontare non solo il nemico, ma anche le difficoltà di un clima ostile e di una vita fatta di sacrifici e privazioni. Tuttavia, anche in mezzo a tanto dolore, il Natale portava con sé momenti di conforto e umanità.
Nelle trincee gelate del fronte italiano, il lavoro non si fermava mai. I soldati, coperti da mantelle pesanti e passamontagna, spalavano la neve per tenere liberi i sentieri e costruivano ripari per resistere al gelo pungente. I muli, carichi di munizioni e viveri, avanzavano con difficoltà su terreni ghiacciati, mentre i rumori dei colpi nemici rompevano il silenzio della neve.
Ogni esplosione era un promemoria costante del pericolo, ma i soldati continuavano a lottare, sorretti dal pensiero delle loro famiglie lontane e dalla promessa di tornare a casa un giorno. Ogni azione, per quanto semplice, rappresentava un atto di resistenza contro le condizioni spietate della guerra.
Tra le poche pause concesse, la celebrazione della Messa natalizia era un evento di grande significato. Il cappellano militare, spesso visibilmente affaticato dal cammino nella neve, portava con sé una cassetta contenente il necessario per allestire un altare di fortuna. Una roccia piatta diventava il suo pulpito, adornata con una tovaglia bianca, un calice e due lumi accesi da un vecchio soldato.
I fanti si raccoglievano attorno, inginocchiati sulla neve o seduti su rocce gelate, ascoltando in silenzio le parole del sacerdote. I suoi discorsi parlavano di fede, sacrificio e speranza, evocando immagini di casa e dei cari che pregavano per loro. Era un momento carico di emozione, in cui molti si ritrovavano con gli occhi umidi, lasciando che la forza della comunità li confortasse, anche sotto il costante rischio dei colpi nemici.
Dopo la Messa, uno dei momenti più attesi era l’arrivo della posta e dei pacchi natalizi. Trasportati da muli attraverso sentieri innevati, questi doni portavano un pezzo di casa direttamente in trincea. Le famiglie e le associazioni caritatevoli avevano riempito i pacchi con oggetti semplici ma preziosi: calze di lana, sciarpe, cioccolata, sigari, libri e carta da lettere. Nessuno veniva dimenticato, e ogni soldato riceveva qualcosa.
Quegli oggetti avevano un valore che andava oltre la loro utilità. Erano un collegamento con una vita che sembrava lontana, un promemoria di amore e solidarietà. Anche un semplice passamontagna, capace di proteggere dal gelo, diventava un simbolo del legame indissolubile con chi li attendeva a casa.
Il pasto, di solito monotono e scarno, assumeva un sapore diverso nel giorno di Natale. La razione quotidiana si arricchiva di carne, pasta, una fetta di pane in più e un bicchiere di vino. Come tocco finale, una manciata di fichi secchi o un goccio di grappa rendevano il pasto un po’ più festoso.
Questi piccoli gesti non cancellavano certo le difficoltà, ma offrivano ai soldati un senso di normalità. Per un momento, potevano immaginare di essere seduti con le loro famiglie attorno a una tavola imbandita, lontani dalla durezza del fronte.
Il Natale in trincea non era solo una pausa dalla guerra, ma un’occasione per rafforzare i legami tra i soldati. Le risate attorno a un bicchiere di vino, le lettere lette con attenzione sotto la luce tremolante delle lanterne e le storie condivise aiutavano a costruire un senso di comunità. Era un antidoto alla solitudine e alla paura, un momento in cui il cameratismo diventava una forza potente contro le avversità.
Anche sapendo che la guerra sarebbe continuata dopo quel giorno, i soldati trovavano nel Natale un motivo per andare avanti. Era un momento di tregua emotiva, un’occasione per ritrovare speranza e forza.
A distanza di oltre un secolo, quei Natali passati in trincea restano una testimonianza di coraggio e determinazione. Raccontano storie di uomini che, nonostante le difficoltà, riuscivano a trovare conforto nei piccoli gesti e a mantenere viva la loro umanità. Sono esempi che ci ispirano ancora oggi, ricordandoci l’importanza della solidarietà e della speranza anche nei momenti più bui.
«Ovunque si combatte – ha detto Papa Francesco – le popolazioni sono sfinite, sono stanche della guerra, che come sempre è inutile e inconcludente, e porterà solo morte e distruzione, e non porterà mai la soluzione dei problemi. La guerra è una sconfitta, sempre!»

Umberto Ravagnani

Vogliamo qui richiamare alla memoria i montebellani caduti durante la Grande Guerra e commemorati sul pregevole Monumento di Montebello Vicentino, opera di Giuseppe Zanetti.

APRI ...

(Dal libro di Ottorino Gianesato Montebello e i suoi caduti nella guerra 1915-18).

BIBLIOGRAFIA:
– M.Rigoni Stern, 1915-1918 La guerra sugli Altipiani, (a cura di), 2000.
– V.Pastore, Cara mamma, 2008.
– O.Gianesato, Montebello e i suoi caduti nella guerra 1915-18, 2014.

FOTO:
1) Alcuni soldati in trincea festeggiano il Natale (ricostruzione di fantasia dell’episodio raccontato nell’articolo a cura di Umberto Ravagnani).
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DON EUGENIO XOMPERO

[421] DON EUGENIO XOMPERO
Una vita al servizio della gente e della fede

Nel novembre 2024, Nogarole Vicentino ha celebrato i sessant’anni di sacerdozio di Don Eugenio Xompero con una serie di eventi che hanno coinvolto tutta la comunità. Tra i momenti più emozionanti, l’esibizione della compagnia teatrale “I Teatranti del Castello” di Montebello Vicentino  con la commedia “La fortuna si diverte”, un omaggio al parroco che aveva lasciato un segno indelebile anche nella loro comunità.
Nonostante gli anni, Don Eugenio conserva lo spirito e l’energia di un giovane sacerdote. “Visito le famiglie come facevo appena uscito dal seminario” dice con un sorriso. La sua dedizione instancabile è il segreto del suo legame profondo con la gente.
Tra le verdi colline del Veneto, dove le tradizioni antiche e la fede fervente si intrecciano, il nome di Don Eugenio Xompero è sinonimo di dedizione, umanità e amore per la comunità. A Nogarole Vicentino, dove vive e opera dal 1991, Don Eugenio è molto più di un parroco: è una guida, un confidente e un esempio di come il ministero sacerdotale possa essere vissuto con umiltà e passione.
Nel novembre 2024, il borgo ha celebrato i suoi sessant’anni di sacerdozio, un traguardo che racconta la storia di un uomo che ha scelto di dedicare ogni giorno della sua vita al servizio degli altri. Questa è la storia di Don Eugenio, una figura che ha saputo intrecciare la sua fede con la quotidianità delle comunità montane del Veneto.
Don Eugenio nacque nel 1939 a San Pietro Mussolino, un piccolo paese nella verde valle formata dal torrente Chiampo, nell’alto Vicentino. Cresciuto in una famiglia profondamente religiosa, scherza spesso ricordando come la loro casa fosse chiamata “il Vaticano” per l’atmosfera di preghiera e devozione che la permeava. Ma la scintilla della sua vocazione non nacque solo in famiglia.
Luglio 1944: la Seconda Guerra Mondiale stava lasciando ferite profonde in tutta Europa, e anche la sua comunità non fu risparmiata. Don Luigi Bevilacqua, un sacerdote noto per il suo coraggio, fu assassinato dai nazifascisti e la sua chiesa data alle fiamme. Pochi mesi prima, Eugenio aveva incontrato Don Luigi in canonica. “Mi chiese cosa volessi fare da grande” ricorda Don Eugenio. “Io contavo i bottoni della sua veste e dissi: Voglio fare quello che fai tu”. Quel desiderio innocente segnò l’inizio di un percorso che avrebbe portato Eugenio all’ordinazione sacerdotale vent’anni dopo, il 15 luglio 1964, nella stessa chiesa ricostruita.
Dopo la sua ordinazione, Don Eugenio iniziò il suo ministero a Novale di Valdagno, dove rimase fino al 1971. Qui, in una comunità operaia, dimostrò subito il suo approccio pratico e umano alla vita pastorale. Una delle storie più celebri di quegli anni riflette il suo carattere: “Una signora anziana mi chiamò per benedire i ratti che stavano infestando una gabbia di conigli. Io andai e vidi che nella rete c’era un buco grande come la mia mano, allora le dissi: io i ratti li benedico, ma ci metta una rete nuova!”.
Dal 1971 al 1977, Don Eugenio prestò servizio nei Ferrovieri di Vicenza, poi a Montebello fino al 1984 e infine a Chiampo fino al 1991. In ogni comunità, lasciò un’impronta indelebile, costruendo relazioni autentiche e affrontando le sfide con spirito e dedizione.
A Montebello, Don Eugenio fu particolarmente coinvolto nel Carnevale, contribuendo a renderlo un evento sempre più partecipato e ricco di carri allegorici. Fu anche il tempo di un’avventura speciale con gli scout, guidata con l’entusiasmo e la passione che contraddistinguono il suo approccio ai giovani.
La storia dello scoutismo a Montebello ebbe inizio nei primi anni ’80, quando un gruppo di giovani, pieni di entusiasmo ma senza esperienza, si riuniva in canonica con Don Eugenio Xompero. Cappellano dal 1977, Don Eugenio si rivelò una guida illuminata: la sua capacità di entrare in sintonia con i ragazzi e la sua energia contagiosa furono determinanti nel dare forma a un progetto duraturo. Grazie alla sua dedizione, nel 1983 nacque ufficialmente la Comunità Capi, consolidando l’adesione all’associazione. Il gruppo crebbe rapidamente, sia nel metodo che nella collaborazione con le famiglie. Figure chiave come Teresa Bressan e Battista Zerbato, i primi Capigruppo, contribuirono con passione a superare le sfide iniziali.
Oggi, il percorso del gruppo testimonia il valore di quel lavoro collettivo e l’impatto di Don Eugenio, pilastro di sostegno e ispirazione. Il suo esempio rimane indelebile.
Nel 1991, Don Eugenio venne nominato parroco di Nogarole Vicentino, un borgo montano dove il tempo sembra scorrere al ritmo della natura. Per 33 anni, Don Eugenio ha condiviso la vita di questa comunità con una dedizione che ha trasformato la parrocchia in un vero punto di riferimento spirituale e umano.
Abbiamo fatto grandi lavori per migliorare le strutture della parrocchia” racconta Don Eugenio, “ma la cosa più importante è ascoltare la gente, comprendere le loro fatiche e portare loro speranza.” Questo approccio lo ha reso una figura amata e rispettata, un punto fermo per una comunità che spesso affronta le difficoltà con una resilienza straordinaria. Tra le iniziative più significative di Don Eugenio a Nogarole, ci sono la fondazione di un gruppo scout, i campeggi estivi per giovani e famiglie e la cura della musica liturgica. Ogni attività, pensata per rafforzare il senso di comunità, è stata guidata dalla sua convinzione che la fede debba essere vissuta come un’esperienza condivisa e gioiosa.
Essere parroco in un borgo montano come Nogarole significa affrontare sfide uniche. Le comunità di montagna, spesso isolate e con risorse limitate, richiedono un approccio pastorale fatto di vicinanza e comprensione. Don Eugenio ha abbracciato queste sfide con entusiasmo, vedendo nel suo ruolo un’opportunità per essere una presenza rassicurante e costante.
Durante gli inverni rigidi, Don Eugenio non esitava a visitare le famiglie più isolate, portando conforto e parole di speranza. Le processioni all’aperto e le celebrazioni speciali divennero occasioni per rafforzare i legami tra i parrocchiani, mentre la sua predicazione, sempre semplice e diretta, arrivava al cuore di tutti.
Un momento speciale del suo ministero fu la visita del cardinale Camillo Ruini, che accettò l’invito di Don Eugenio a visitare Nogarole. Quando il cardinale gli propose l’incarico di Segretario a Roma, Don Eugenio rispose con la sua tipica schiettezza: “Lasciatemi respirare l’aria e godere il sole, altrimenti in ufficio faccio la muffa!”
La storia di Don Eugenio Xompero è un esempio di come la fede, vissuta con semplicità e autenticità, possa trasformare una comunità. La sua capacità di ascoltare, consolare e ispirare ha lasciato un’impronta che durerà per generazioni.
Guai a chi ce lo tocca” dicono i parrocchiani di Nogarole, riflettendo l’affetto e la gratitudine per un uomo che ha dedicato tutta la sua vita agli altri. Con il suo spirito pratico e la sua umanità, Don Eugenio ha dimostrato che la fede può essere una forza straordinaria per unire e trasformare le comunità.
Mentre si avvicina al suo 85° compleanno, la sua eredità è già scolpita nei cuori di chiunque lo abbia conosciuto. Il suo esempio continuerà a ispirare, ricordandoci che la vera grandezza si trova nella semplicità di servire con amore.

Umberto Ravagnani

FOTO: Montebello Vicentino, 1° settembre 2024: l’Oratorio di Sant’Egidio risplende di nuova luce grazie al restauro impeccabile del pittore Michelangelo Valbona, affiancato da Bruno Turetta. La celebrazione della S. Messa tradizionale, officiata da Don Eugenio Xompero, unisce arte e spiritualità, regalando ai presenti un’esperienza carica di emozione e memoria storica. (Foto Umberto Ravagnani)

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A. PEDROLLO UN GENIO MUSICALE

[420] ARRIGO PEDROLLO: un genio musicale
Una vita dedicata alla musica, tra innovazione e tradizione

Il 23 dicembre 2024 segnerà il sessantesimo anniversario della scomparsa di Arrigo Pedrollo, straordinario compositore di Montebello Vicentino. La sua musica, ricca di sfumature e intensità, rappresenta un ponte tra tradizione e innovazione. Pedrollo non era solo un musicista, ma un autentico poeta dei suoni, capace di raccontare emozioni universali attraverso le sue note. La sua eredità artistica continua a risuonare, ispirando nuove generazioni e mantenendo viva la memoria di un talento unico. Celebrare Pedrollo significa onorare un faro della nostra cultura musicale, un esempio eterno di passione e genio creativo.
Nato il 5 dicembre 1878 a Montebello Vicentino, Arrigo Pedrollo rappresenta uno dei nomi più brillanti della musica italiana del XX secolo. La sua vita e la sua carriera testimoniano un raro connubio di talento, dedizione e visione, che gli hanno permesso di conquistare un posto di rilievo nel panorama lirico e sinfonico internazionale.
Figlio di Luigi Pedrollo, organista e direttore di banda, e di Santa Businello, Arrigo crebbe in un ambiente ricco di stimoli musicali. Il talento precoce del giovane Pedrollo si rivelò già in tenera età: a soli quattro anni suonava composizioni di Chopin, mentre a cinque otteneva i suoi primi riconoscimenti pubblici. La contessa Elisa Marsilio Orgian Piovene, colpita dalle sue doti, intervenne per introdurlo ai maestri Antonio e Gaetano Coronaro.
Grazie a questo sostegno, nel 1892 Pedrollo fu ammesso al Conservatorio di Milano, distinguendosi come il migliore tra undici candidati. Qui studiò pianoforte sotto la guida di Guglielmo Andreoli e approfondì armonia e composizione con Gaetano Coronaro, ereditando una solida preparazione che sarebbe stata alla base della sua futura produzione musicale. Durante gli anni di studio, la sua versatilità lo portò a diventare “maestrino”, insegnando pianoforte e solfeggio a studenti più giovani.
Nel 1900, a conclusione del suo percorso di studi, Pedrollo presentò la sua Sinfonia in Si Minore, conosciuta come La romantica. L’opera, articolata in quattro movimenti, fu diretta nientemeno che da Arturo Toscanini, un evento straordinario per un giovane compositore. Questo riconoscimento segnò un momento cruciale per la sua carriera, consacrandolo come un talento emergente nel panorama musicale italiano.
Il 1908 segnò una tappa fondamentale per Pedrollo con la vittoria del Concorso Sonzogno grazie alla sua prima opera lirica, Juana. Basata sul libretto di Carlo De Carli, Juana si distinse per la complessità emotiva e narrativa, combinando tradizione e sperimentazione. L’opera debuttò nel 1914 al Teatro Eretenio di Vicenza, riscuotendo un grande successo e venendo replicata in molti altri teatri italiani.
Parallelamente, Pedrollo compose Terra Promessa, un’opera che esplorava tematiche bibliche e spirituali attraverso una scrittura musicale raffinata. Presentata per la prima volta al Teatro Ponchielli di Cremona, l’opera fu accolta con entusiasmo e successivamente rielaborata nel 1913, confermando l’abilità del compositore di innovare pur rimanendo radicato nella tradizione.
Il 1920 rappresentò un anno chiave nella carriera di Pedrollo, segnato dalla presentazione di due delle sue opere più importanti: La veglia e L’uomo che ride. La prima, rappresentata al Teatro dei Filodrammatici di Milano, si caratterizzò per un’intensa carica emotiva e un linguaggio musicale innovativo. Accolta con entusiasmo, l’opera fu replicata in Italia e all’estero, arrivando anche al Metropolitan di New York.
Contemporaneamente, Pedrollo portò in scena L’uomo che ride, un adattamento del celebre romanzo di Victor Hugo. Quest’opera, messa in scena al Teatro Costanzi di Roma, consolidò la sua reputazione come uno dei compositori più apprezzati del suo tempo, dimostrando la sua capacità di tradurre grandi capolavori letterari in esperienze musicali di grande impatto.
Milano divenne la città d’elezione per Pedrollo, non solo come compositore ma anche come docente. Nel 1924, Maria di Magdala, un’opera lirica ispirata a temi evangelici, debuttò al Teatro Dal Verme, ottenendo grande successo. Due anni dopo, il compositore presentò Delitto e castigo, tratto dall’omonimo romanzo di Dostoevskij, alla Scala di Milano. Quest’opera, caratterizzata da una scrittura orchestrale audace e da un’intensa introspezione psicologica, rappresentò uno dei vertici della sua carriera.
Parallelamente all’attività compositiva, Pedrollo assunse nel 1929 la cattedra di contrappunto al Conservatorio di Milano, contribuendo alla formazione di una nuova generazione di musicisti e consolidando il suo ruolo nella scena musicale italiana.
Negli anni Trenta, Pedrollo continuò a creare opere di grande rilievo, come Primavera Fiorentina e L’amante in trappola, quest’ultima basata su una novella del Decamerone. Queste composizioni, apprezzate sia in Italia che all’estero, dimostrarono la capacità del compositore di rinnovare il linguaggio musicale senza abbandonare le radici della tradizione lirica.
Un’altra opera significativa fu Il giglio di Alì, composta negli anni Quaranta e frequentemente trasmessa dalla Rai. Questo lavoro riflette la maturità artistica di Pedrollo, capace di combinare elementi tradizionali e moderni con una sensibilità unica.
Nel 1941, Pedrollo lasciò il Conservatorio di Milano per dirigere il Liceo Musicale Pollini di Padova. Tuttavia, il legame con la sua terra d’origine rimase sempre forte, e nel 1942 tornò a Vicenza, dove trascorse gli ultimi anni della sua vita. Sebbene in questa fase la sua attività compositiva si fosse ridotta, Pedrollo continuò a essere una figura di riferimento nella scena musicale italiana.
Arrigo Pedrollo è stato un compositore capace di unire tradizione e innovazione, creando opere che ancora oggi risuonano per la loro profondità emotiva e il loro valore artistico. Dalle sue prime composizioni sinfoniche ai capolavori lirici, la sua carriera rappresenta un modello di dedizione e genialità.
Oggi, il suo lavoro è un tesoro che merita di essere riscoperto, non solo come testimonianza di una straordinaria epoca musicale, ma anche come esempio di un artista che ha saputo interpretare il suo tempo con passione e visione.
Nel 1924, Arrigo Pedrollo creò la Marcia dei Combattenti, un omaggio carico di emozione per l’inaugurazione del monumento ai caduti di Montebello. Questa composizione per banda, che potrebbe essere ancora custodita negli archivi della banda civica locale, rappresenta un pezzo di storia e tradizione che meriterebbe di essere riscoperto e valorizzato.
Un sincero ringraziamento va al nipote di Arrigo, Raffaello Pedrollo, il cui contributo informativo è stato indispensabile per questo nostro articolo. Raffaello inoltre ci informa della recentissima produzione del CD di La Veglia da parte del soprano Denia Mazzola Gavazzeni pubblicata da Bongiovanni Bologna e che la Nuova Orchestra Pedrollo, un’orchestra d’archi attiva dal 2014, si esibisce regolarmente, mantenendo vivo il nome del maestro. Alcune registrazioni, disponibili su YouTube, permettono di riscoprire il fascino della sua musica.

LA NUOVA ORCHESTRA PEDROLLO è composta da musicisti che scelgono di incontrarsi, condividere esperienze e intrecciare storie attraverso la musica. Ogni prova è un dialogo tra note scritte e mani che le rendono vive, rivelando una bellezza nascosta. La musica diventa arte viva, arricchita dai luoghi, dalle emozioni del pubblico e dall’unione di strumenti.

ARRIGO PEDROLLO: WALZER - Ascolta ...

Arrigo Pedrollo: Walzer / Gabriele Dal Santo, pianoforte e direttore – Nuova Orchestra Pedrollo /
Registrata al Teatro Olimpico, Vicenza nel 2014, in occasione del 50esimo della morte di A. Pedrollo.

Violini I:
M° Giovanni Guglielmo, primo violino
Irene Pedrollo, Andrea Giacometti, Alessandro Gasperini, Giulio Marangoni, Eleonora Dal Santo

Violini II:
Tiziano Guarato, Enrica Ronconi, Laura Mazza, Giulia Menara

Viole:
Lisa Bulfon, Michele Sguotti, Nicola Possente, Pamela Micoli

Violoncelli:
Daniele Cernuto, Massimiliano Varusio, Anna Grendene

Contrabbassi:
Michele Gallo, Antonio Danese

Arpa: Giulia Rettore

Umberto Ravagnani

BIBLIOGRAFIA:
– G.Maccagnan, Una vita per la musica, 2018;
– F.Grassi, Arrigo Pedrollo, 1979.
– Testi del soprano Denia Mazzola Gavazzeni per la recentissima registrazione di “La Veglia” – Bongiovanni Bo 2024.
FOTO:
1) Il Maestro Arrigo Pedrollo ai tempi di “Juana” – 1914. Sullo sfondo ritratto di Giosuè Carducci con dedica (dal libro Arrigo Pedrollo di Francesco Grassi).
2) Lettera manoscritta inviata da Arrigo Pedrollo ad un suo ammiratore a l’Havana (Cuba), il 26 novembre 1924. All’interno le prime note dell’opera “Maria di Magdala” (collezione privata Umberto Ravagnani).
3) Arrigo Pedrollo all’epoca di “L’uomo che ride“, esattamente un secolo fa, in prima pagina sulla prestigiosa rivista “Musica e Scena”.

Vedi anche gli articoli n.[150] del 5/9/2019 “ARRIGO PEDROLLO” in e n.[359] del 12/10/2023 “Memoria per ARRIGO PEDROLLO”.

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PER UN SACCO DI PATATE

 

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LA VILLA DEI MALASPINA

 

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MONS. SILVESTRO ALBERTINI

 

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ADELE DE FILIPPI

 

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RITROVARE SÉ STESSI

 

NATALE 2024: RITROVARE SÉ STESSI

LA MAGIA DI UN MOMENTO IN CUI TUTTO È POSSIBILE

     La pioggia cade incessante su Piazza Italia, creando un’atmosfera unica, dove la frenesia del paese sembra rallentare e i riflessi delle luci natalizie scintillano sulle pozzanghere come in un sogno. Natale è alle porte, e la piazza è allestita con decorazioni che raccontano l’Evento in ogni angolo: ghirlande di abeti, stelle dorate e luci soffuse che creano una sinfonia luminosa nel grigio della sera. Un uomo con l’ombrello avanza con calma sotto la pioggia, immerso in un mondo ovattato, mentre un’auto sfreccia a lato, sollevando schizzi d’acqua. È un momento che parla di quiete e attesa, e un leggero sorriso sul volto dell’uomo sembra cogliere il fascino di questa notte speciale.

     A pochi metri di distanza, una grande finestra si affaccia proprio su Piazza Italia, illuminata come un quadro in movimento che riflette il calore delle luci all’interno di una casa decorata con cura. La pioggia continua a battere sull’asfalto, ma dentro tutto è fermo e raccolto, avvolto in un’atmosfera accogliente. Un camino al centro della stanza arde vivacemente, diffondendo un bagliore dorato e scaldando l’intero ambiente. Su un divano morbido, un cane dal pelo corto dorme pacifico, sprofondato nel riposo, ignaro di tutto ciò che accade fuori.

     Sulla superficie del tavolino davanti al divano, diversi oggetti raccontano l’essenza del Natale. C’è una piccola palla di vetro con all’interno una baita di montagna: ogni volta che la si scuote, una neve incantata cade dolcemente avvolgendo la casetta. Accanto, un lumino splende con una luce morbida e tremolante. Lorena l’ha costruito magistralmente con un semplice vaso di vetro, decorandolo con dettagli e accessori accurati. È un piccolo oggetto artigianale che riflette il calore delle mani che l’hanno creato e il desiderio di rendere speciale anche il più semplice degli oggetti.

     Non lontano dal camino, un cesto con dei regali incartati in carta semplice e nastri rossi richiama l’attesa dei doni. È una semplicità che fa risaltare il pensiero, l’intenzione che sta dietro a ciascun regalo, e tutto, in questo spazio, comunica un profondo senso di calma. Al centro della stanza, una gatta grigia si dedica con cura alla sua toilette, mentre un piccolo gattino la osserva attentamente dalla sua cuccia e cerca di imitarne i movimenti, goffo ma adorabile, in un’immagine di tenerezza che rende l’ambiente ancora più accogliente e familiare.

     Accanto alla finestra si erge un maestoso albero di Natale, decorato con palline colorate e luci che brillano a intervalli, creando un contrasto magico con il buio esterno. È un simbolo di festa e speranza, e i suoi rami sembrano quasi abbracciare l’intera stanza. Sopra il camino, un monitor mostra immagini natalizie: scorrono lente, come se il tempo, qui, seguisse un ritmo diverso, più tranquillo e profondo.

     La scena si completa con la presenza di un uomo che passeggia sotto la pioggia. Si ferma per un istante davanti alla finestra e guarda all’interno, attratto dal calore che traspare dalla casa. I suoi occhi sembrano cogliere l’essenza di ciò che il Natale rappresenta: una tregua dal mondo esterno, un momento di connessione e serenità. Dopo un attimo di contemplazione, si allontana, portando con sé il riflesso di quel calore.

     La canzone “A Natale puoi” sembra avvolgere questa scena con le sue parole semplici e profonde: “A Natale puoi fare quello che non puoi fare mai” È un invito a lasciarsi andare, a riprendere in mano i propri sogni, a tornare a desiderare ciò che si è messo da parte. Natale è quel momento dell’anno in cui sembra possibile fermarsi, dimenticare per un attimo le preoccupazioni, e riscoprire quel calore che spesso resta in secondo piano. In questo spazio, la vita sembra prendersi una pausa, e l’amore, come suggerisce la canzone, può esprimersi senza riserve.

     “A Natale puoi dire ciò che non riesci a dire mai” Il fuoco del camino, la tranquillità della stanza e la vicinanza delle persone care rendono facile aprirsi, lasciando fluire quei sentimenti che spesso rimangono nascosti. È una verità delicata e potente: a Natale, quel “ti voglio bene” che rimane spesso non detto trova finalmente il suo spazio, un luogo dove può essere accolto senza paura.

     C’è una luce speciale che accompagna questa scena, una luce blu che sembra brillare proprio dentro l’anima. È la luce della speranza, del desiderio di amore, della voglia di prendersi cura delle persone che ci circondano. Natale è una celebrazione di questo sentimento, una festa che ci invita a mostrare il meglio di noi stessi, non solo per un giorno, ma ogni giorno, perché, come dice la canzone, “questa luce può crescere, se lo vuoi

     All’interno della casa, il cane continua a dormire, il fuoco crepita, la gatta e il suo cucciolo proseguono la loro danza di tenerezza. Fuori, la pioggia cade, e Piazza Italia è immersa in una calma quasi irreale, illuminata dalle luci di Natale che brillano contro l’oscurità. Questa è una notte magica, un momento perfetto per riconnettersi con ciò che conta davvero. È come se la piazza, la pioggia, la casa e la melodia creassero un tutt’uno, un inno alla pace e all’amore che ci ricorda che, anche nel cuore dell’inverno, il calore può trovarci e avvolgerci.

     E così, l’uomo con l’ombrello, che si allontana lentamente dalla finestra, porta con sé il messaggio racchiuso in questa scena: Natale è il tempo di fare di più, di vivere di più e di amare di più. È un invito a guardare chi amiamo e a dirglielo, a dedicare quel momento in più a chi ci è vicino. Ogni dettaglio, dalla palla di vetro con la neve alla luce calda del lumino di Lorena, racconta una storia di affetto e di protezione.

     Quando la canzone si ripete con “A Natale puoi…” sembra quasi ricordarci che il Natale è anche una promessa, una porta aperta verso una vita vissuta con più dolcezza, più verità e più coraggio. È una notte che non si dimentica, perché è intrisa di quella luce che può davvero illuminare ogni giorno dell’anno.

Umberto Ravagnani


LA CASA DEL FASCIO A MB

 

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PADRE GIORGIO M. ZEINI

 

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IL MAESTRO GIOVANNI GOBBO

 

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MARIA DE GIACOMI

 

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ROSANNA ZANESCO

 

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1945: TRA CAOS E LIBERAZIONE

 

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MONTEBELLO SOTTO ASSEDIO

 

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LA PALA DELLA MADONNA DI MB

 

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NOTTE DI PAURA AL BORGO

 

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ANTONIO AGOSTINI

 

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ARTURO COSTA

 

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UNA CURVA MORTALE

 

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IL VIOLINO E IL DESTINO

 

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MEMORIE DI ZONDERWATER

[398] MEMORIE DI ZONDERWATER
Un racconto di prigionia e speranza nella Seconda Guerra Mondiale

Oggi vi raccontiamo una storia poco conosciuta della Seconda Guerra Mondiale, che si svolge in un campo di prigionia molto lontano dall’Italia, a Zonderwater, in Sudafrica. Questa vicenda ci viene narrata dalla nostra concittadina Elisa Longarato, che negli ultimi anni ha dedicato tempo e passione a raccogliere testimonianze e notizie per ricostruire la prigionia di suo padre Vittorio in quel luogo.
Elisa ha partecipato, il 21 marzo 2024, a un evento organizzato dalla ‘The University of Sidney‘ e dalla ‘New York University‘ che si è tenuto al ‘John D. Calandra Italian American Institute‘ di New York, collegandosi in remoto da casa sua. In quell’occasione, ha raccontato con emozione e in inglese la storia della prigionia di suo padre Vittorio in Sudafrica durante la Seconda Guerra Mondiale. Ha descritto le difficili condizioni di vita, la lontananza dalla patria e dagli affetti e come suo padre e i suoi compagni riuscirono a trovare forza e speranza in una situazione così disperata.
Circa un mese dopo, Elisa è stata invitata in persona a un altro evento a New York che si è svolto in due giorni. Il 23 aprile 2024 presso il ‘Center for Italian Modern Art‘ (CIMA ) e il 24 aprile presso la ‘NYU Casa Italiana Zerilli-Marimò‘. Il primo giorno, l’evento era intitolato “Preservare i ricordi della prigionia di guerra e la loro eredità” e aveva l’obiettivo di mantenere viva la memoria di queste esperienze dolorose ma significative. Durante questo incontro, Elisa ha riproposto, insieme ad altri testimoni collegati da vari Paesi del mondo, la storia di suo padre Vittorio, condividendo aneddoti e dettagli che hanno reso la narrazione ancora più intensa e coinvolgente.
Il secondo giorno il tema era ‘Suoni di prigionia: Musica dei prigionieri italiani durante la seconda guerra mondiale‘. Dopo la presentazione e il concerto del Maestro Francesco Lotoro su musiche composte in prigionia, si è tenuta una lezione con gli studenti della New York University. I ragazzi hanno osservato con attenzione i libri, le lettere, gli oggetti che Vittorio si era portato dalla prigionia; in particolare il banjo-mandolino costruito con mezzi di fortuna lavorando di notte. Hanno espresso le loro opinioni e fatto domande alle quali Elisa ha risposto raccontando particolari della vita in guerra e prigionia di suo padre. Elisa è stata molto colpita dall’interesse sulla storia dei prigionieri italiani dei ragazzi “americani” provenienti da vari paesi del mondo.
La testimonianza di Elisa è fondamentale per mantenere vivi i ricordi delle difficoltà affrontate dai prigionieri di guerra e per comprendere meglio la nostra storia collettiva. L’impegno di Elisa nel preservare questi ricordi rappresenta un omaggio alla resilienza e al coraggio di suo padre e di tutti coloro che hanno condiviso la sua sorte. Grazie a persone come Elisa, queste storie non vengono dimenticate e continuano a ispirare le generazioni future, ricordando a tutti noi il valore della memoria e dell’umanità anche nei momenti più bui.
Ecco il suo racconto, il 21 marzo, da casa sua in collegamento da remoto e poi, il 23 aprile, da New York:

IL RACCONTO EMOZIONANTE DI ELISA TRA MONTEBELLO E NEW YORK


LEGGI...

« Sono Elisa Longarato e ringrazio Elena Bellina (New York University) e Giorgia Alù (Sidney University) per l’invito. È un onore per me partecipare a questo incontro. Mi scuso in anticipo per il mio pessimo inglese.
Vi racconterò di mio padre, Vittorio Longarato, che combatté in Nord Africa nell’8° Rgt. Bersaglieri, durante la Seconda Guerra Mondiale, e della sua prigionia in Egitto e poi in Sud Africa fino al 1947.
Vorrei riassumere il percorso che mi ha portato a dedicarmi alla “missione” di rintracciare la prigionia di mio padre durante la Seconda Guerra Mondiale. Fino a circa quindici anni fa non avevo mai sentito il nome “Zonderwater”. Mio padre ha parlato poco della guerra e pochissimo della sua prigionia, solo negli ultimi anni della sua vita ha raccontato qualcosa ai miei fratelli e pezzo dopo pezzo ora stiamo ricostruendo la sua storia. Sapevo solo che era stato ferito in una battaglia nel deserto tra Libia ed Egitto nel 1941, e che lo credevano morto. Fu salvato da un medico tedesco, anche lui prigioniero, che lo tirò fuori dal mucchio dei cadaveri dei soldati. Dopo due mesi trascorsi al General Hospital di Geneifa in Egitto, e un altro mese nelle “gabbie” egiziane, è stato trasferito in Sud Africa, prima vicino a Durban e poi vicino a Pretoria. Quando tornò a casa, nel febbraio del 1947, aveva con sé una valigia di latta (fatta con barattoli di marmellata) piena di libri provenienti dalla biblioteca del campo allora quasi abbandonato, una valigia di cartone con alcuni oggetti personali, alcuni vestiti, una coperta e il suo banjo-mandolino e i quaderni con la musica che scrisse a Zonderwater.
Realizzò il banjo-mandolino con il legno di una panca del campo, con la pelle di un coniglio, la ghiera di una bomba, il dorso di un pettine, mezzi bottoni di madreperla e fili metallici per le corde, presi dai cavi dei freni delle motociclette.
Circa quindici anni fa ho iniziato a leggere e a riordinare centinaia di lettere che scrisse durante i suoi 10 anni lontano da casa (1937-1947 militare-guerra-prigionia). Nel 2010 ho letto il libro “I Diavoli di Zonderwater” di Carlo Annese, (scrittore e giornalista sportivo che era stato in Sud Africa per i Mondiali di calcio).
Mi resi conto che mio padre era stato a Zonderwater!
Poi per caso ho scoperto che in un libro scritto da un Generale dell’8° Rgt. Bersaglieri viene menzionata l’azione di mio padre nella battaglia denominata “Operazione Brevity” avvenuta il 15 maggio 1941 a Sollum-Capuzzo-Halfaya, dove mio padre rimase gravemente ferito. Ho saputo che il campo di prigionia in Egitto era il Campo 306 a Geneifa e che i campi in Sud Africa erano a Pietermaritzburg e Zonderwater.
Ho fatto qualche ricerca online e non c’era niente su Zonderwater. Poi ho trovato un gruppo Facebook appena aperto su Zonderwater a cui mi sono iscritta e nel novembre 2011 sono andata con altri membri del gruppo in Sud Africa. Abbiamo incontrato il presidente dell’Associazione Zonderwater Block ex POW, Sig. Emilio Coccia. Abbiamo visitato l’area in cui si trovavano i due campi e abbiamo partecipato alla cerimonia la prima domenica di novembre al cimitero di Zonderwater (era il 70° anniversario dell’apertura del campo).
Poi, ho deciso di creare www.zonderwater.com, un sito web collegato alla nostra pagina Facebook, dove avrei potuto creare un database con informazioni e immagini sulla prigionia di guerra italiana e sui soldati detenuti in Sud Africa, dove i discendenti di altri prigionieri avrebbero potuto pubblicare informazioni e foto dei loro parenti. Queste informazioni sono soggette a revisione e approvazione. Mio nipote mi ha aiutato a creare il sito web.
Sono rimasta in contatto con Emilio Coccia. Finora, attraverso il sito e la pagina Facebook, ho ricevuto migliaia e migliaia di email con richieste di informazioni da parte di parenti di ex prigionieri di guerra. Di solito li consiglio su come svolgere le loro ricerche e li metto in contatto con Emilio Coccia per avere informazioni sui loro parenti registrati nell’archivio Zonderwater dell’Associazione.
Sono tornata in Sud Africa nel novembre 2017 con un altro gruppo. Durante la cerimonia ho avuto l’onore di deporre una corona insieme a Paolo Ricci, allora l’ultimo prigioniero di guerra vivente di Zonderwater in Sud Africa (morto nel 2022). Era il 70° anniversario della chiusura del campo (1947-2017). Ad oggi il gruppo Facebook conta circa 2.000 membri.
Ogni anno organizziamo un raduno (escluso il periodo pandemico). L’anno scorso abbiamo organizzato il nostro incontro annuale a Roma ed è stata la prima volta senza prigionieri di guerra. Sfortunatamente, sono tutti morti. Emilio Coccia era presente come sempre.
Zonderwater è ricordata come “La città del prigioniero”. Molti soldati italiani catturati dagli inglesi nell’Africa settentrionale e orientale furono imbarcati su navi dirette a Durban in Sud Africa. Una volta sbarcati venivano caricati sui treni con destinazione finale il campo di prigionia di Zonderwater.
Prima di raggiungere la loro destinazione, i prigionieri venivano fermati nel campo di transito di Pietermaritzburg, situato a 75 chilometri da Durban. Il campo ha funzionato come pronto soccorso, medico e struttura di controllo, lavaggio, disinfezione e ristoro. Quindi i prigionieri di guerra venivano rimessi sul treno diretto a Zonderwater.
Tuttavia, molti prigionieri rimasero a Pietermaritzburg per tutto il periodo di cattività. In alcuni periodi il campo ospitava fino a 8.000 uomini.
Zonderwater vicino a Cullinan (43 Km da Pretoria), il più grande campo di prigionia di guerra costruito dagli Alleati durante la Seconda Guerra Mondiale, ospitò più di 100.000 soldati italiani dall’aprile 1941 al gennaio 1947.
Nonostante la guerra fosse finita nel 1945, il campo venne chiuso solo nel 1947 a causa dei ritardi nel rimpatrio dei prigionieri. Tuttavia, molti ex prigionieri decisero di rimanere in Sud Africa.
L’avventura umana di Zonderwater parte dalla tendopoli del 1941, trasformata nel 1943 (con il colonnello Prinsloo) in quell’enorme e permanente centro abitato formato da mattoni rossi e costruzioni in legno destinato poi a diventare quasi una leggenda: 14 blocchi, ciascuno composto da 4 campi (56 in totale). Ogni campo ospitava 2.000 uomini, quindi, un blocco poteva ospitare 8.000 prigionieri. Nel complesso, Zonderwater aveva una capacità totale di 112.000 uomini.
Il 2 novembre 1947, un gruppo di ex prigionieri di guerra in Sud Africa tornò sul posto per mantenere aperto il cimitero e organizzò cerimonie commemorative. Questa struttura basata sul servizio volontario è stata formalizzata nel 1965 con la fondazione dell’Associazione Zonderwater Block ex POW. L’attuale presidente dell’Associazione, Emilio Coccia, è in carica dal 2000. Zonderwater è stata visitata per la prima volta nel 2002 dal Presidente della Repubblica Italiana Carlo Azeglio Ciampi.
Grazie.
Elisa Longarato »

FOTO: 1) Elisa Longarato racconta la storia di suo padre Vittorio dal “Center for Italian Modern Art“, a New York il 23 aprile 2024.
2) La valigetta con alcuni oggetti personali di Vittorio Longarato. Elisa, in occasione del suo intervento a New York ha esibito il banjo-mandolino costruito da suo padre durante la prigionia (cortesia Elisa Longarato).

Umberto Ravagnani

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GEMMA CENZATTI

 

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NASCE IL MERCATO A MONTEBELLO

 

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FRA LUIGI MARIA VERLATO

 

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L’ORIGINE DELLA CHIESA DI SELVA

 

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