IL MIO RICORDO DI LINO LOVATO (MONTEBELLO – 6/12/2019) (scarica la locandina)
Riportiamo qui l’accurata descrizione dell’opera artistica di questo nostro compaesano, scomparso nel 1984, già espressa da Cristina Crestani in occasione della mostra a lui dedicata nel 2007:
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Disegni d’ornato e bassorilievi in gesso di putti danzanti decorano le pareti dell’aula; sulla cattedra troneggia il calco di una testa apollinea. Alcuni adolescenti, seduti su grezze panche, sono intenti a copiare oggetti semplici. Li sorveglia dal fondo della stanza il maestro, un ragazzo di poco più grande di loro, magro, alto, i capelli e gli occhi nerissimi, dall’aria seria, consapevole del ruolo. Così ce lo rimanda una foto dei primi anni ‘40, Il giovane Lino, non ancora ventenne, sostituiva nella Scuola d’Arte e Mestieri di Montebello l’insegnante di disegno richiamato alle armi. Aveva respirato il gusto per le belle forme, per la decorazione e la manipolazione della materia fin dall’infanzia, nella falegnameria del padre. Aveva affinato le sue qualità artistiche frequentando per quattro anni, dal 1939 al 1942, a Vicenza i Corsi di arte applicata condotti dal Prof. Benella. Successivamente, nello studio vicentino dello scultore Gino Tossuto, approfondiva la pratica delle tecniche scultoree e acquisiva conoscenze di anatomia. Le prime esperienze lavorative le fece nel laboratorio del padre, però l’intaglio decorativo del legno non poteva certo bastargli: troppe sensazioni, troppe emozioni e aspirazioni lo invadevano. Bisogna immaginarcelo, pieno di talento e di sogni, cercare una propria via negli anni plumbei del dopoguerra. Il fascismo, retorico e ridondante immagini magniloquenti, gli aveva certamente eccitata l’immaginazione, L’Italia del dopoguerra era tutta una maceria e la ricostruzione procedeva lenta, fatti di piccoli passi, di piccole cose: Lino ci si doveva adeguare. Alternava l’aiuto al padre ai bassorilievi di Madonne lignee, alla pittura di paesaggi e nature morte, a restauri di vecchi dipinti; decorava anche tessuti per freschi abiti estivi di vezzose fanciulle. Le prime opere pittoriche rivelano un’adesione al vero, il tentativo di dare anima ad oggetti di poco conto, legati alla quotidianità. Dipinge minuscole tele dove noci, mele, kaki, mandorle vengono minuziosamente indagati, interi o spezzati, con semi e bucce in evidenza; raffigura anche il suo violino. Amava quel violino, Nei momenti in cui anelava ad una maggiore intimità con se stesso, lo estraeva con delicatezza dalla sua custodia, lo appoggiava sulla spalla e suonava. Le dita affusolate districavano le note e i suoni acuti che faceva emettere allo strumento avevano assonanze con i suoi pensieri, anch’essi acuti, talvolta striduli. Convivevano in lui la consapevolezza del proprio valore e la sensazione di soffocare nel ristretto ambiente paesano. L’ansia di fare, di provare, di conoscere si smorzava, s’annacquava nel timore per un’impresa troppo ardua. L’inibizione diventava rovello, chiusura. Guardava alle immagini riprodotte nei testi d’arte, alla pittura italiana dei tempi andati, ai capricci settecenteschi, ai tenebrosi paesaggi romantici, poi si avventurava a cercar raffigurazioni di avanguardie moderne, Quello che riesce a captare lo stimola, lo eccita, cerca di imitarlo. Le sue prime prove moderne sono cubiste, con essenziali forme geometriche e la stesura piatta del colore. Attraverso questi studi muta il suo modo di vedere, l’immagine diviene essenziale, sintetica, egli realizza l’idea con immediatezza, con interventi minimi. L’osservatore si trova di fronte ad un risultato subitaneo, spontaneo, espressivo. Agli inizi degli anni ‘70 si specializza nell’esecuzione di lavori con la spatola, un attrezzo lungo e sottile che maneggiava con estrema maestria. E’ questo il suo periodo più fecondo, fatto di impressioni grumose di colore, di tocchi impercettibili, di vibrazioni di luce, di levità e materia all’unisono. Realizza un’infinità di tavolette con visi, paesaggi mediterranei dalle bianche casette baciate dal sole; lussureggianti boschetti di materia pittorica intrecciata, ingarbugliata; grigie periferie urbane, velieri trascinati dalla tempesta. Col passar del tempo la forma si dissolve sempre di più e lo stile di Lino va a sconfinare nell’espressionismo astratto, materico. Intitola le schegge di luce-colore. Esplosione.
Il mondo della sua infanzia e giovinezza è completamente mutato, gli amici con cui trascorrere le nottate a chiacchierare sono altrove impegnati, la società disdegna il culto del bello, è divenuta competitività, ricerca spasmodica dell’interesse. Lino alterna periodi di ignavia a giorni d’intenso lavoro. Poi porta le sue piccole opere al bar di fronte a casa le dona. Non riesce ad accomunare il suo lavoro, fatto con l’anima, frutto d’ispirazione e spiritualità, a qualcosa di venale. Non riesce neppure a pensare ad una mostra personale, né ad organizzarla. I fiori sbocciano, gli uccelli volano, i pesci guizzano nell’acqua: Lino dipinge con la stessa gratuità. La sua mente andava a San Francesco, al Discorso della Montagna, al Cristo che dipinge più volte Crocefisso. La spatola lascia segni concitati, rotti; i colori contrastanti urlano; l’opposizione dei bianchi col nero drammatizzano ancor più l’evento. La bellezza classica, inseguita negli anni giovanili, non è più raggiungibile, la realtà pare tutta frammentata e sulla tela si tramuta in schegge sempre più cupe e dissonanti, I suoi ultimi lavori sono sublimi: sfarfallii di disperazione d’un espressionismo di altissima qualità. Il disfacimento dell’uomo, del suo fisico e di ogni suo sogno, coincidono con l’assoluta purezza ed espressività artistica ». Cristina Crestani
VIDEO: La prima parte del video della mostra-ricordo di Lino Lovato (Umberto Ravagnani – Foto iniziale di Adelino Fioraso)
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( L. 918 )