[466] L’AVVENTURA DI UN TENORE
Una storia di fiducia tradita

Milano, ottobre 1924. L’aria sapeva di carbone, pioggia e vita che corre. I tram cigolavano lungo Via Manzoni, le luci dei lampioni facevano ballare le ombre sui palazzi liberty, e nei caffè si respirava un miscuglio di fumo, voci e sogni. Era una città in fermento: tra un carretto e una Ford nuova fiammante, tra sartine stanche e cantanti in cerca di applausi, Milano correva veloce, quasi troppo per chi provava a starle dietro. In quella giostra di ambizioni viveva Gino Costa, ventisette anni, tenore messinese con la valigia piena di speranze. Aveva lasciato il Sud per la capitale del lavoro e della musica, quella dove “chi si fa, ce la fa”, almeno così gli avevano detto. Alloggiava in una pensione modesta in via Manzoni, a due passi dalla Scala — scelta strategica per chi viveva di note e di sogni. Di giorno studiava, di sera inseguiva la città, tra voci, teatri e quella sensazione elettrica di chi sente di essere nel posto giusto, anche se ancora non sa perché. Poi, una sera qualunque, la vita gli cambiò direzione.
Il giornale dell’epoca la raccontò con ironia, come fosse una storiella. Ma dietro quelle righe leggere c’era la realtà dura di chi vive in bilico tra illusione e delusione.
Gino tornava a casa dopo una cena con colleghi di teatro. Aveva ancora addosso l’eleganza della serata: cappotto scuro, cappello a larghe tese, passo deciso ma stanco. L’aria sapeva di castagne arrostite, e la città si preparava a dormire, ma non del tutto. Fu in quel momento che la vide. Una ragazza giovane, forse vent’anni, lo sguardo timido ma fiero. Non una signora, nemmeno una “ragazza perbene”. Forse una commessa, una stiratrice, o solo una che cercava compagnia per scaldarsi un po’ in quella sera fredda. Gino le disse una frase gentile, come si usava allora. Lei rispose con un sorriso piccolo, incerto. Bastò quello: due parole, un accenno di fiducia, una risata trattenuta. Poco dopo salivano insieme le scale della pensione.
Fu una notte breve. Leggera, quasi distratta. Ma la mattina dopo, il tenore si svegliò in una stanza più vuota del solito. La ragazza non c’era più. E nemmeno il portafoglio sul tavolino. Dentro, duemila lire e qualche dollaro, frutto di settimane di esibizioni. Gino restò lì, un attimo, a fissare il vuoto. Poi si vestì in fretta, cercò la padrona della pensione, e infine andò al commissariato.
Ad accoglierlo c’era il commissario De Bernadis, un uomo che ne aveva viste parecchie ma che, dicono, ascoltava sempre con attenzione. Gino raccontò tutto, con calma, cercando di non sembrare ingenuo. Descrisse la ragazza nei dettagli: minuta, bionda, con l’aria fragile ma occhi che parlavano troppo.
Milano era una città che sapeva tutto di tutti. E infatti bastarono pochi giorni perché la polizia trovasse una sospettata: Lina G., diciannove anni, originaria di Montebello Vicentino. Viveva in via Porro Lambertenghi, nel quartiere Isola, una zona popolare e rumorosa, piena di operai, bambini che giocavano nei cortili e donne che cercavano di farsi bastare poco.
Quando i poliziotti bussarono alla porta, Lina non finse neanche sorpresa. Disse solo: “Sì, l’ho preso io.” E scoppiò a piangere. Nel verbale scrissero che era “una giovane di aspetto gentile, dall’indole debole e facilmente suggestionabile”. Dietro quella frase c’era una vita già segnata. Era scappata da casa mesi prima, stanca di un padre rigido e di una routine che la soffocava. Aveva creduto, come tanti, che Milano fosse la città delle occasioni. Ma la realtà, allora come oggi, non era tenera con chi arrivava senza niente in tasca. Per un po’ aveva fatto la stiratrice, poi la commessa. Poi era arrivato Mario M., napoletano, elegante, con un sorriso da attore e mani troppo esperte.
Lui la corteggiò, la convinse che insieme avrebbero fatto fortuna. Ma presto la verità venne fuori: Mario viveva sfruttando le donne che lo amavano. Era un protettore — parola gentile per dire sfruttatore. La spinse a “frequentare” uomini benestanti, artisti, viaggiatori. Le diceva che era solo un modo per sopravvivere, che non c’era niente di male. E lei, con la paura di restare sola, si lasciò trascinare. Quando incontrò Gino, non vide un tenore, ma un’occasione. Non lo derubò per cattiveria: lo fece per disperazione, o forse perché non sapeva più scegliere da sola.
La polizia scoprì presto anche Mario. Lo trovarono in un albergo del centro, vestito elegante, intento a spendere i soldi del furto. Quando lo arrestarono, mantenne lo stesso sorriso di sempre, quello di chi pensa di cavarsela anche stavolta. Le accuse furono nette: furto aggravato per Lina, lenocinio per lui. La stampa si divertì.
I titoli erano tutti simili: “L’avventura di un tenore”. I giornalisti scrivevano con un tono leggero, come se fosse solo una storia curiosa. Ma tra le righe, si sentiva una certa compassione. Lina non era una ladra nata, ma una ragazza finita nella rete sbagliata. E Milano, all’epoca, era piena di ragazze come lei: arrivate dalle campagne con la speranza di un lavoro e finite in situazioni più grandi di loro.
Il quartiere Isola, allora, era un piccolo mondo. I panni stesi nei cortili, i bambini che giocavano a biglie, le donne che chiacchieravano alle finestre. Gli uomini uscivano presto per la fabbrica e tornavano tardi, stanchi ma fieri. Ogni famiglia viveva con poco, ma teneva stretto il proprio orgoglio. Bastava però un passo falso, una cattiva compagnia, per scivolare fuori da quel fragile equilibrio. E il furto di quel portafoglio, alla fine, fu solo una goccia nel mare delle storie milanesi. Ma diceva tanto. Parlava di fiducia, di ingenuità, di fame di vita.
Gino aveva creduto nella bontà di una sconosciuta. Lina aveva creduto alle bugie di un uomo che la usava. Due illusioni che si erano incrociate, e che si erano fatte male a vicenda.
Nessuno sa davvero come finì. Probabilmente Lina passò qualche mese in carcere, Mario un po’ di più. Magari lei tornò a Montebello, o forse rimase a Milano, invisibile tra la folla. Di Gino, invece, non si seppe più niente. Forse continuò a cantare nei teatri di provincia, forse smise, portandosi dentro l’amarezza di quella notte. Ma, un secolo dopo, la loro piccola storia dice ancora molto. Perché ogni tempo ha i suoi Gino e le sue Lina: chi si fida troppo e chi, per paura o bisogno, tradisce quella fiducia. E ogni città — ieri come oggi — promette opportunità, ma nasconde anche trappole. In fondo, nessuno è immune dalla fame di qualcosa: denaro, amore, riconoscimento. È quella fame che muove il mondo, ma anche quella che ci frega. Lina non rubò solo dei soldi: rubò la fiducia di un uomo buono. Ma quello che le mancava davvero non era il denaro. Era una possibilità diversa. E Gino, pur ferito, forse imparò qualcosa che non avrebbe mai trovato nei teatri: che la compassione, anche verso chi ci delude, è una forma di intelligenza profonda.
Riletta oggi, la loro storia non sembra solo una vecchia cronaca nera, ma una scena viva di una città che cambia, dove i sogni e la fame si scontrano ogni giorno. Milano resta quella: un palcoscenico di destini fragili. E dietro ogni piccola notizia c’è sempre la stessa domanda di allora — quanto vale la bontà, in un mondo che non sempre la premia? Forse, se quella sera le cose fossero andate diversamente — se ci fosse stata più fiducia, o un po’ meno paura — le vite di Gino e Lina avrebbero trovato un altro ritmo. Ma quella notte d’autunno del 1924 restò così: una nota stonata nel grande canto di Milano, la città dove tutto può cambiare in un attimo.
FONTE: Da un fatto di cronaca realmente accaduto.
FOTO: MILANO, Via A. Manzoni nel 1920 c.a. da una cartolina postale (rielaborazione grafica Umberto Ravagnani).
Umberto Ravagnani
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